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lunedì, Mar 23

10 cose che sappiamo (e non sappiamo) sull’epidemia di coronavirus



Da Wired.it :

Dalle misure di contenimento al fantomatico picco, passando per vaccini, immunità, prevenzione, letalità, storia epidemica e terapie intensive, alcune delle cose fondamentali che sappiamo sulla Covid-19. O perlomeno che sappiamo di non sapere

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(foto: Paolo Miranda/Afp/Getty Images)

È trascorso poco più di un mese dall’annuncio ufficiale del primo caso di positività al coronavirus per una persona infettata sul nostro territorio nazionale. Un mese che pare quasi un’eternità, se pensiamo a quanto le vite di tutti gli italiani siano cambiate in queste poche settimane. E un mese in cui il mondo dell’informazione – e pure i social e il chiacchiericcio con amici e parenti – è stato pressoché monopolizzato dalla questione Covid-19.

Rimettere in ordine tutto quello che oggi sappiamo del coronavirus, anche solo in senso epidemico, scientifico e sanitario, vorrebbe dire raccogliere un’infinità di materiale, tanti sono gli studi e le valutazioni possibili su quello che sta succedendo in Italia e nel resto del mondo. Per questo abbiamo raccolto qui una selezione di alcune cose che conosciamo ma che sono forse un po’ meno note, accanto ad altre che invece sono celeberrime proprio perché è indispensabile conoscerle. Senza dimenticare quello che, parafrasando Socrate, la comunità scientifica sa di non sapere, ossia quelle questioni su cui al momento non possiamo fare altro che sospendere il giudizio.

1. Sappiamo: dopo quanto ha effetto il contenimento

Ipotizziamo che il giorno zero venga adottata su una certa popolazione una misura efficacissima per il contenimento del contagio da coronavirus: dopo quanto ne vedremmo gli effetti? Naturalmente si tratterebbe di un fenomeno progressivo, ma è possibile oggi dare una quantificazione più che accettabile di questo lasso di tempo. Sappiamo infatti che il periodo di incubazione della Covid-19 è nella maggior parte dei casi di 4-7 giorni, con la possibilità che sia più breve ma anche che si estenda fino a un paio di settimane. Rispetto all’insorgenza dei primi sintomi, secondo quanto ha stimato l’Istituto superiore di sanità, nei casi più gravi che poi possono avere esito fatale trascorrono in media 4 giorni prima del ricovero in ospedale, e altri 4 prima dell’eventuale decesso. Se quindi pretendessimo di osservare una deviazione nella curva epidemica dei decessi, potremmo aspettarci che l’effetto più significativo inizi intorno alle due settimane dal giorno zero, anche se naturalmente si tratterebbe di un fenomeno spalmato nel tempo e che dura perlomeno per tutta la terza settimana (il nostro lockdown, per la cronaca, è iniziato con il decreto Dpcm del 9 marzo).

Certo, questo tempo potrebbe essere un po’ ridotto in un mondo ideale in cui potessimo tamponare tutte le persone ogni giorno, ma nella realtà sappiamo bene che, anzi, ci sono molte persone che contraggono il virus e non vengono mai diagnosticate, e che perciò solo i ricoveri in terapia intensiva e i decessi sono dati che garantiscono una relativa (ma non assoluta) affidabilità statistica. Quello che è sicuro, in ogni caso, è che gli effetti di qualsiasi misura di contenimento sono invisibili almeno per i primi 10 giorni dall’adozione, e che quello che stiamo vedendo oggi è ancora frutto di ciò che è accaduto nei primi giorni di marzo. Tenendo conto poi che nessuna misura è al 100% efficace, l’effetto finale auspicato sarà ancora più diluito nel tempo.

2. Non sappiamo: se il virus se ne andrà da solo

L’ipotesi, chiacchierata ormai da mesi, è che con l’arrivo della bella stagione il virus Sars-Cov-2 possa scomparire da sé, grazie all’effetto delle temperature più miti o dell’aria più umida. Al momento questa teoria non è più che una semplice ipotesi ottimistica, fondata solo sulla speranza che il nuovo coronavirus si comporti in modo analogo ad altri virus come quello dell’influenza stagionale, ossia che diminuisca la propria pericolosità e contagiosità con l’avanzare della primavera.

Se le cose andranno per il meglio, il virus riuscirà a resistere molto meno fuori dal corpo umano, si degraderà molto più facilmente grazie all’azione del caldo umido e la circolazione sarà sfavorita anche dagli ambienti via via più arieggiati. Anche nel 2003 con il virus della Sars, secondo gli scienziati, la stagione estiva diede una mano nel contenere l’epidemia. Tuttavia è vero anche che proprio durante l’estate si innescarono nuovi focolai dello stesso virus, che nel caso della Mers addirittura il caldo pare abbia favorito il potenziamento del contagio, e che per Sars-Cov-2 oggi stiamo vedendo casi di persone positive anche in Paesi dove la temperatura è già elevata. Insomma: dato che si tratta di un patogeno nuovo, nessuno può sapere con certezza che cosa accadrà, ed è bene non creare false promesse.

L’altra questione è il legame con lo smog. Secondo alcuni ci sarebbe una correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la proliferazione delle infezioni respiratorie virali, e dunque sarebbe necessario ridurre drasticamente le emissioni di particolato come ulteriore misura di contenimento. Di fatto a oggi non esiste però alcun rapporto di causa-effetto scientificamente solido che dimostri come un inquinamento ridotto dell’aria si traduca in una apprezzabile diminuzione dei contagi.

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(illustrazione: Getty Images)

3. Sappiamo: ci sono molte bufale in circolazione

Ormai se ne contano a centinaia, tra audio ricondivisi su WhatsApp, teorie del complotto, teorie da social e falsi miti su test diagnostici, metodi di prevenzione e ricette fai da te per mascherine e disinfettanti. Da inizio anno, ancor prima che il contagio arrivasse ufficialmente nel nostro Paese, la quantità di fake news a tema coronavirus è tale che ha poco senso stare a seguire il debunking di ogni singola diceria e teoria strampalata.

Conviene semmai accettare lo stato delle cose: in mezzo a tantissima informazione ben fatta, o perlomeno priva di sparate campate in aria, ci sono pure delle false notizie. Diffidare a priori della nota audio ricevuta su WhatsApp dall’amico dell’amico, non mettersi a seguire strane diete e prendersi la responsabilità di verificare l’autenticità di un contenuto prima di condividerlo con altri potrebbero essere tre buoni passi nella giusta direzione.

4. Non sappiamo: quante persone sono morte

Anche il numero di decessi di persone positive al coronavirus, in un certo senso l’ultimo appiglio per sperare di poter fare analisi statistiche sensate, ha dato negli ultimi giorni segni evidenti di inaffidabilità. Si sono accumulate evidenze, infatti, che sopratutto nelle aree più colpite alcune persone (perlopiù anziane) siano decedute in circostanze e in numero anomalo, senza che venisse eseguito su di loro alcun tampone faringeo, né prima né dopo il decesso. Difficilissimo, però, dare una valutazione affidabile di queste morti non ufficialmente associate al coronavirus, sia per il gran numero di casi che il sistema sanitario locale si è trovato a gestire contemporaneamente sia perché occorrerebbe valutare ciascun caso singolarmente.

Una stima di massima potrà essere condotta, una volta terminata la fase acuta, confrontando la curva della mortalità complessiva del 2020 con quella della mortalità complessiva degli anni precedenti. Ciò che per ora è significativo sapere, comunque, è che nei pazienti meno sani ci può essere un peggioramento del quadro clinico così tempestivo da non lasciare il tempo né di eseguire i test diagnostici né di prevedere un trasporto in ospedale. Solo a posteriori quindi, raccogliendo sistematicamente informazioni sulle persone morte nella propria abitazione o nelle case di riposo, si potrà applicare un sensato fattore correttivo alle stime ufficiali. Il che vale soprattutto per quelle aree dove, complice il sovraffollamento degli ospedali e delle terapie intensive, il personale medico dedica tempo ed energie soprattutto ai pazienti con le migliori probabilità di sconfiggere il virus.

5. Sappiamo: chi si infetta e chi muore di più

Sulla base delle analisi statistiche condotte dal nostro Istituto superiore di sanità e da altri sudi all’estero, comincia a essere chiaro il quadro generale dell’impatto del virus e della letalità suddiviso per fasce d’età. Al di là del numero di patologie pregresse e della stramba distinzione tra morti per e con il coronavirus, oggi sappiamo che oltre il 40% delle persone decedute in Italia sono di età compresa tra gli 80 e i 90 anni e che un ulteriore 9% è ultranovantenne. Solo il 4,3% è più giovane di 60 anni, e nessun decesso è stato registrato per gli under 30.

Le statistiche più affidabili sulle persone portatrici di coronavirus provengono invece dalla Corea del Sud, dove è stato condotto uno studio di massa che ha evidenziato come i giovani siano i principali vettori per la Covid-19. I dati italiani sono infatti falsati dal metodo con cui i campioni vengono eseguiti (escludendo i casi non gravi, quindi soprattutto le persone giovani), mentre il risultato dei test coreani a tappeto è che un terzo dei contagiati totali sta nella fascia 20-29 anni. Questo da un lato rassicura sulla letalità sostanzialmente nulla del coronavirus per chi ha meno di 30 anni, dall’altro rende evidente come limitare la mobilità dei più giovani (ed evitare i contatti stretti con i più anziani) sia l’elemento chiave per ridurre il contagio e l’impatto sul sistema sanitario.

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(immagine: Getty Images)

6. Non sappiamo: quanto dura l’immunità

La questione dell’immunità permanente al Sars-Cov-2 per chi ha contratto e superato la malattia è uno dei principali punti interrogativi sul tavolo. Per il momento, da quanto risulta, non ci sono persone che si siano ammalate due volte (ma solo alcuni episodi di ricaduta). Tuttavia alla domanda su quanto possa durare l’immunità garantita dall’aver sconfitto il virus non è ancora possibile dare risposta, e il motivo è ovvio: dato che si tratta di un virus nuovo per la specie umana, nessuno lo ha avuto da un tempo sufficientemente lungo per poter trarre conclusioni. L’unica cosa da fare è pazientare.

Il tema è fondamentale anche per altri due aspetti. Il primo è che solo nel caso di un’immunità a lungo termine si può sperare di poter raggiungere una condizione di immunità di gregge. L’altro è che pure nel caso del vaccino si presenta la stessa domanda: l’eventuale soluzione vaccinale che dovesse essere messa a punto garantirà una protezione per tutta la vita, o l’iniezione dovrà essere ripetuta periodicamente?

7. Sappiamo: le migliori misure di prevenzione

Ormai vengono ripetute ovunque e in continuazione, ma è fondamentale comprendere a fondo la distinzione tra le misure di contenimento decisive e quelle accessorie. Il rischio, infatti, è che ci si concentri su opportunità di contagio altamente improbabili, e che allo stesso tempo se ne scordi qualcuna delle più rilevanti.

In cima alla lista, per esempio, ci sono misure come il distanziamento sociale (ossia il metro – almeno – di distanza di sicurezza dagli altri), l’attenzione al lavaggio frequente e accurato delle mani, l’evitare di uscire di casa se si è sintomatici, l’evitare il contatto delle mani con le mucose del viso e lo starnutire o il tossire in un fazzoletto o nel gomito. La misura di prevenzione del disinfettare le zampe del proprio cane dopo la passeggiatina, o di pulire accuratamente gli oggetti acquistati, possono anche in generale avere una loro utilità, ma proteggono da un rischio di trasmissione del virus estremamente più remoto. Insomma, meglio non guardare troppo la pagliuzza se poi questo ci fa scordare la trave.

8. Non sappiamo: quando arriva il picco

Non lo sappiamo per mille ragioni, che qui su Wired abbiamo già cercato di raccontare in più occasioni, anche con il contributo degli epidemiologi. In sintesi, i modelli matematici dell’epidemia non hanno lo scopo di prevedere ciò che accadrà in futuro, ma di verificare se le misure di contenimento stanno avendo efficacia e di indicare quali strategie adottare.

Oltre che un esercizio ben poco utile, l’idea che si possa prevedere o calcolare il picco epidemico porta con sé anche un’altra stortura: non è detto, infatti, che ogni regione italiana raggiunga il massimo dei contagi contemporaneamente alle altre, ma anzi per minimizzare l’impatto complessivo sul sistema sanitario nazionale sarebbe auspicabile che i picchi siano sfasati l’uno dall’altro. Proprio per questo le previsioni sulla data del picco, vicine o lontane che siano, non meritano particolare attenzione, anche perché molte si sono già rivelate sbagliate (ricordate quella chiacchieratissima del 18 marzo?).

9. Sappiamo: la sopravvivenza sulle superfici

Messe da parte le stime eccessive e quasi leggendarie secondo cui il virus poteva resistere fino a 9 giorni fuori dal corpo umano, oggi sappiamo che a seconda dei materiali, delle caratteristiche della superficie e delle condizioni di umidità e temperatura si varia da qualche ora (4 per il rame) fino a 3 giorni nel caso della plastica e dell’acciaio inossidabile. Ma anche dove pare resistere più a lungo va tenuto conto che la carica virale scende molto rapidamente, restando solo in tracce infinitesime rispetto alla quantità iniziale nel giro di qualche ora. In sospensione nell’aria in uno spazio chiuso, invece, il virus può resistere più a lungo dei “pochi minuti” che erano stati inizialmente pronosticati.

All’atto pratico, i nuovi studi pubblicati a marzo hanno portato ad alcuni consigli: evitare di restare in ambienti chiusi o poco arieggiati (l’esempio tipico è l’ascensore, o una stessa stanza condivisa con una persona potenzialmente infetta), pulire bene le aree della casa dove si cucina e si mangia, lavare con cura i cibi consumati crudi e in generale seguire le normali indicazioni di igiene domestica. Disinfettare l’asfalto e mettere in quarantena gli oggetti acquistati, seppur in linea teorica potenzialmente utili, paiono sempre più delle misure poco incisive.

10. Non sappiamo: quando è iniziata l’epidemia

Forse non troppo importante per gestire la fase emergenziale, ma fondamentale dal punto di vista degli studi epidemiologici, è capire in che momento è effettivamente iniziata l’epidemia di coronavirus in Italia. Abbandonata ormai l’idea che il cosiddetto paziente zero di Codogno sia effettivamente il paziente zero, diverse proposte retrodatano l’inizio del focolaio lombardo di due, quattro o anche otto settimane. Secondo alcuni esperti, insomma, si dovrebbe addirittura tornare indietro al 2019.

Insieme alle tante domande ancora aperte sul futuro (quando avremo un vaccino? le decine di farmaci antivirali o d’altro genere in fase di sperimentazione daranno gli effetti sperati? le misure di contenimento saranno sufficientemente efficaci?), resta ancora aperto anche il più grande interrogativo sul passato: quando è cominciata davvero questa storia?

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[Fonte Wired.it]