Un recente studio condotto da un gruppo ricercatori dell’Università di Yale ha identificato l’area del cervello che potrebbe essere responsabile della paranoia. Analizzando i dati comportamentali raccolti su scimmie ed esseri umani, la ricerca ha creato un nuovo quadro di riferimento attraverso il quale comprendere al meglio i processi cognitivi umani a partire dalle differenze con le altre specie. I risultati, pubblicati sulla rivista scientifica Cell Reports, hanno evidenziato che le lesioni in corrispondenza della corteccia orbitofrontale e del talamo mediodorsale possono provocare comportamenti irregolari e quelli persistenti.
L’esperimento
Il team è partito analizzando i dati di lavori precedenti sulle due sezioni del cervello, condotti da diversi laboratori sia su esseri umani che su scimmie. In questi studi i partecipanti umani e gli animali eseguivano lo stesso compito, finalizzato a valutare il grado di instabilità o volatilità percepita di un determinato ambiente.
Nel nuovo esperimento ai soggetti coinvolti venivano presentate tre opzioni su uno schermo, associate a diverse probabilità di ricevere una ricompensa. Selezionando l’opzione con la più alta probabilità, i partecipanti ottenevano il premio con un minor numero di clic. Di contro, l’opzione con la probabilità più bassa richiedeva un maggior numero di clic, mentre la terza opzione rappresentava una via di mezzo. Le persone che hanno partecipato al test non avevano informazioni sulle probabilità di ricompensa associate alle varie opzioni e dovevano scoprire la scelta migliore andando per tentativi.
Dopo un determinato numero di prove e senza preavviso, le opzioni di probabilità di ricompensa cambiavano randomicamente. “I partecipanti devono quindi capire qual è l’opzione migliore e, quando viene percepito un cambiamento ambientale devono trovare la nuova migliore opzione“, ha spiegato Steve Chang, professore associato di psicologia e neuroscienze presso la Yale school of arts and sciences e coautore dello studio. Il comportamento dei partecipanti prima e dopo il cambiamento ambientale fornisce buoni indizi sulla volatilità percepita dai soggetti e sull’adattabilità dei loro comportamenti all’interno di un ambiente che si modifica nel tempo.
“Non solo abbiamo utilizzato dati in cui scimmie ed esseri umani eseguivano lo stesso compito, ma abbiamo anche applicato la stessa analisi computazionale a entrambe le serie di dati – ha dichiarato Philip Corlett, professore associato di psichiatria alla Yale school of medicine e coautore dello studio –. Il nostro modello computazionale si compone di una serie di equazioni che utilizziamo per cercare di confrontare il comportamento delle scimmie con quello umano“.