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Più che un film, Borderlands è un’operazione, o almeno lo è più esplicitamente di quanto lo siano tutti gli altri grandi film sul genere. È un’operazione di conversione di una proprietà intellettuale da videoludica a cinematografica e di conquista di un pubblico che, a giudicare dal film, si colloca tra gli 8 e i 13 anni ed è prevalentemente maschile. Il problema è che come operazione non è nemmeno troppo sofisticata: esistono modi decisamente migliori di farlo (l’esempio aureo è il primo Transformers). Tuttavia, quando per la trasposizione di un gioco che necessiterebbe di una scrittura forte o almeno di un’idea di regia audace, ci si affida a un regista come Eli Roth, sia per la scrittura che per la regia, non ci si può poi raccontare di non aver ottenuto ciò per cui si è pagato.

La trama ruota intorno al primo gioco della serie: troviamo quindi Lilith, interpretata da Cate Blanchett, e la Cripta, il luogo su Pandora a cui i personaggi mirano e per aprire il quale è necessario recuperare un particolare individuo. Lilith è una mercenaria e, per conto di un ricco capitalista, deve recuperare questa persona, ma, come spesso accade in questi casi, lo scrupolo di coscienza è dietro l’angolo. Si forma così la più classica delle bande armate eterogenee, composta da outsider, pochi ma agguerriti contro molti, favorendo tutti gli scontri di cui il film ha bisogno, con una formula meccanica e ripetitiva, usurata e convenzionale. È la tipica pigrizia di Eli Roth, che preferisce utilizzare strutture già ben note. Questo ha un senso in film come Thanksgiving, meno in uno come Borderlands.

Borderlands nelle mani di Eli Roth da videogioco diventa film nella maniera peggiore



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