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Lorenzo Tugnoli, intervista al fotoreporter premio Pulitzer sul conflitto in Medio Oriente

da | Mag 5, 2025 | Tecnologia


L’ultimo messaggio di Papa Francesco, a Pasqua, è stato un ennesimo monito a fermare il riarmo. Sappiamo che il papa ogni sera chiamava o videochiamava il parroco Gabriel Romanelli della parrocchia Sacra Famiglia di Gaza per far sentire la sua vicinanza.

Papa Francesco ha fatto un buon uso del potere mediatico che aveva, ha sempre usato parole dirette. Questa mia mostra è in fondo una riflessione sulla comunicazione di questa guerra, un conflitto che ha visto uccisi per la prima volta anche un gran numero di giornalisti e fotografi, ammazzati proprio perché portavano avanti il loro lavoro di testimonianza.

Come si lavora, in queste condizioni?

Fin dall’inizio sono stato inviato lì dal Washington Post. Eravamo in tre, a dire il vero. Io coprivo la Cisgiordania, un mio collega Israele e un collega palestinese era a Gaza. Come sappiamo, nessun giornalista occidentale è potuto entrare a Gaza dall’inizio del conflitto. Io ci ho provato da ogni varco, ma non ci è stata data possibilità. A un certo punto ci siamo dovuti adoperare per mettere in sicurezza il nostro fotografo: dopo sei mesi siamo riusciti a evacuarlo in Egitto. Parlo al plurale, per intendere la testata: io non ho avuto alcun ruolo. Detto questo, all’inizio, lo devo ammettere, non ci era stato subito chiaro quanto noi fotoreporter fossimo bersagli. Questa è anche una guerra di comunicazione: Israele ha cercato di tenere a bada il più possibile i media occidentali per evitare immagini troppo forti che avrebbero scosso la comunità internazionale.

Eppure, ci sono, e alcuni hanno pagato con la vita, molti fotoreporter palestinesi che stanno documentando il conflitto, specie su Instagram.

Ma vuoi mettere quanto cambierebbe avere un’inviata della CNN, magari bianca, tra le macerie di Gaza? Quando parlo di percezione della guerra intendo questo: serve un’immagine forte, che vada virale. Così siamo messi.

Molti dei suoi scatti sono dal fronte del Libano.

Di cui non vediamo praticamente nulla: la gente comune quasi ignora che ci sia stato anche lì un conflitto devastante. A differenza di Hamas, che non è così capillarmente diffusa nel territorio della Striscia, Hezbollah in Libano controlla ogni singolo centimetro. Mi è capitato di essere a pochi chilometri dal centro del conflitto e di non poter muovermi: devi avere l’autorizzazione del press office di Hezbollah che magari sì, dopo il bombardamento israeliani, ti porta sul posto ma ti fa vedere solo ciò che vuole. Ha i suoi interessi: in molti aree nasconde pesanti armamenti, cerca una narrazione favorevole e altro ancora. E così, di un conflitto che in 3 mesi ha fatto 3mila morti, non abbiamo praticamente neanche una foto di persone tra le macerie, come se nulla fosse. Ora, non è che io faccia il fotografo per fotografare la distruzione, ma non poter documentare quasi nulla è frustrante: in questo modo è difficile denunciare il dramma che si sta consumando.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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