In vista del referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno, Wired ha chiesto a Pegah Moshir Pour, attivista per i diritti umani e digitali e consulente in ambito Csr, di raccontare in un’editoriale la sua esperienza personale con il percorso di ottenimento dello status di cittadina italiana e con i problemi e gli ostacoli che affliggono le persone che ne fanno richiesta.
Avevo quindici anni quando ho scoperto che non ero cittadina italiana. Una scoperta amara, silenziosa, che è arrivata come una doccia fredda in un giorno qualunque. Ero cresciuta in Italia, ci vivevo da quando avevo nove anni. Parlavo l’italiano meglio del persiano, amavo Dante, ascoltavo musica italiana avevo i poster in camera di Nek, Tiziano Ferro e Articolo 31, tifavo per gli Azzurri durante i Mondiali. Eppure, in quel momento, tutto ciò che pensavo di essere si è incrinato.
Non ero italiana. Non potevo esserlo. Non ancora.
Da bambina non mi facevo domande. A scuola disegnavo la bandiera tricolore, cantavo l’inno di Mameli con tutta la classe, partecipavo alle recite scolastiche e anche poesie dialettali. Ma quando è arrivato il momento di partecipare davvero alla vita del Paese, ho scoperto di non poterlo fare. “Ma come? In che senso non sei italiana?”, mi chiese incredula un’amica. No, non potevo. Nonostante tutto.
Dieci anni che non sono dieci
In Italia, la legge dice che devi vivere dieci anni in modo continuativo sul territorio per poter presentare la domanda di cittadinanza. Ma quello, scoprii, era solo l’inizio. Dopo la domanda, iniziava l’attesa: questure, silenzi, documenti richiesti più volte, uffici che rimandano, pratiche che si perdono. Per molti, ottenere la cittadinanza richiede altri dieci anni, se hai i documenti.
Sì, venti anni in totale. Venti anni per vedere riconosciuto ciò che già senti nel cuore.