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Buco nell’ozono, come sta a quarant’anni dalla sua scoperta

da | Mag 16, 2025 | Tecnologia


Sono passati quarant’anni da quando un articolo pubblicato su Nature faceva conoscere al mondo il buco nell’ozono. Firmato da Joseph Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin del British Antarctic survey, questo paper mostrava non solo una riduzione di oltre il 40% dello strato di ozono, ma ne imputava la causa alla concentrazione di clorofluorocarburi (Cfc), gas che venivano impiegati nelle bombolette spray e all’interno di frigoriferi e condizionatori.

Una scoperta che portò alla firma del protocollo di Montreal, un accordo per la messa al bando dei Cfc a livello globale adottato nel 1987. L’intesa sta dando i propri frutti: intorno alla metà degli anni Sessanta di questo secolo i livelli di ozono nell’atmosfera dovrebbero tornare ai valori vicini a quelli del 1970.

Il buco nell’ozono

Quando le temperature scendono sotto i -80 gradi centigradi (motivo per cui il buco nell’ozono più significativo si osserva nei cieli antartici) si formano le cosiddette “nubi stratosferiche polari”, all’interno delle quali le molecole di cloro – contenute appunto nei clorofluorocarburi – reagiscono con quelle di ozono portando alla deplezione di queste ultime. “Si tratta di una reazione catalitica, nel senso che l’ozono viene distrutto ma il cloro può provocare diverse interazioni”, spiega Piera Raspollini, ricercatrice all’ Istituto di fisica applicata Nello Carrara (Ifac) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).

Se a questo si aggiunge che “la vita media dei Cfc è di cinquant’anni” si comprendono le dimensioni del fenomeno. E la necessità di tempi lunghi perché la tendenza si inverta, una volta ovviamente tagliate le emissioni di questi gas. Tornando allo studio del 1985, evidenziava livelli della colonna di ozono presente in atmosfera intorno alle 200 unità di Dobson, l’unità di misura impiegata per misurare appunto la quantità di ozono. Si parla di buco quando questo valore scende al di sotto di 220.

“Assistiamo a un trend di riduzione dei valori minimi, il che significa che le dimensioni della colonna stanno aumentando, e di diminuzione dell’area coperta dal buco, pur con delle variabilità interannuali alte”, prosegue Raspollini. Variabilità che si verificano perché l’atmosfera è un sistema complesso e sono tanti i fattori che possono incidere.

L’eruzione del vulcano Hunga Tonga nel 2022, ad esempio, ha avuto effetti negativi perché “ha portato grandi quantità di vapore acqueo in atmosfera e questo, nelle regioni polari, contribuisce alla riduzione dell’ozono”. La tendenza resta però positiva e, soprattutto, “coerente con i modelli che indicano un completo ripristino delle condizioni dello strato di ozono precedenti agli anni ‘70 del secolo scorso intorno agli anni ’50 nella regione artica e a partire dal 2065 in quella antartica”.

Il protocollo di Montreal

“Se non ci fosse stato il protocollo di Montreal, intorno agli anni ‘60 di questo secolo, a tutte le latitudini, non sarebbe stato possibile uscire ed esporsi al sole per più di cinque minuti senza riportare danni evidenti”. A sottolineare l’importanza dell’accordo che nel 1987 portò al bando dei Cfc è Michela Maione, docente di Chimica degli ambienti e dei beni culturali all’Università di Urbino Carlo Bo. L’ozono protegge infatti la terra dai raggi ultravioletti, l’esposizione ai quali aumenta il rischio di cancro della pelle.

L’impegno a vietare l’utilizzo dei Cfc, sottoscritto da tutti e 197 i paesi del mondo, ha eliminato la causa principale del problema, avviando il percorso verso la sua risoluzione. Ma come è stato possibile trovare un’intesa su una tematica di natura ambientale in un mondo che era ancora formato dai due blocchi contrapposti figli della Seconda guerra mondiale?



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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