Il vero problema della serie, quindi, è il tono. Chiunque conosca i libri di Martha Wells recepisce a modo suo il sarcasmo e la mancanza di peli sulla lingua di Murderbot. La performance di Skarsgård, per quanto buona, potrebbe non essere quella immaginata dai lettori. Ogni adattamento rischia di scontrarsi con le aspettative del pubblico del materiale d’origine, ma in questo caso la trama principale si rivela esile a tratti, e quando la narrazione risulta poco riuscita la serie sembra piatta.
Non che sia colpa di Skarsgård. Anche se qualcuno potrebbe chiedersi perché Murderbot venga interpretato da un esemplare perfetto di essere umano, scegliere un uomo bellissimo e strampalato come protagonista è stata la mossa giusta. Dai tempi in cui impersonava il vampiro Eric, l’attore ha perfezionato la sua interpretazione di personaggi “inumani”. Ma quando la trama di Murderbot si fa inconsistente, diventa difficile capire se si sta guardando una commedia da ufficio o un thriller fantascientifico, e questo rende confusa la visione.
Troppo e tutto insieme
Sulla carta, la storia di Murderbot si snoda su due livelli, che corrispondono ad altrettanti misteri. Il primo è quello che riguarda l’equipaggio di PreservationAux e la sua missione di ricerca scientifica su un pianeta ritenuto privo di pericoli. Gli scienziati hanno dovuto accettare la compagnia di una SecUnit per ottenere la copertura assicurativa. Solo quando arrivano sul posto, e si imbattono in cose molto brutte, si rendono conto di quanto la presenza dell’androide sia preziosa: Mensah e il suo equipaggio sono in pericolo e devono scoprire come e perché.
Il secondo mistero riguarda la vera natura di Murderbot. Mentre il robot fa di tutto per nascondere il fatto che non è sotto il controllo degli esseri umani, l’equipaggio non lo vede come una minaccia. Anzi, tutti si sforzano di trattarlo con umanità. Solo Gurathin, un umano potenziato, sospetta che ci sia qualcosa che non va. Man mano che impara a conoscerli meglio, Murderbot si rende conto che i suoi compagni non sono meschini come pensava.
Forse è proprio questo il punto in cui Murderbot – la serie – fatica di più a trovare il proprio ritmo. Ciascuno dei personaggi creati da Wells è stato approfondito, anche se lo conosciamo solo dalla prospettiva del protagonista. Anche nella serie sono verosimili e a tutto tondo, ma l’attenzione è sempre rivolta principalmente alle loro nevrosi, diversamente da quanto accade sulla carta. Lo show vuole essere un eccentrico dramedy fantascientifico accompagnato da una critica alle multinazionali, un cambio di passo rispetto ad altre produzioni di Apple Tv+ decisamente cupe come Silo, Fondazione e Scissione. Il problema è che fatica a essere tutte queste cose insieme.
A metà della stagione, Murderbot si scrolla di dosso un po’ della sua goffaggine. Come spettatori, ci si può abituare al tono poco omogeneo. Ma la cadenza settimanale in cui escono gli episodi (con l’eccezione dei primi due, distribuiti insieme) potrebbe non invogliare i potenziali fruitori, che potrebbero stufarsi prima della fine.
Se gli verrà concesso però Murderbot ha margini di crescita. Come tutta la buona fantascienza, la storia scritta da Martha Well immagina futuri che richiamano il nostro presente e cerca di trovare “soluzioni” alle sue brutture. In un’epoca in cui la prospettiva che le intelligenze artificiali ci rubino il posto di lavoro è molto reale, i romanzi di Wells si chiedono se creare umanoidi a cui affidare la bassa manovalanza non sia paragonabile alla schiavitù. Ma anche se l’esplorazione di altri pianeti dovrebbe essere affidata a multinazionali private. La serie insomma è di grande attualità, ma la prima stagione scalfisce solo la superficie. Forse troverà la sua voce nella seconda.
Questo articolo è apparso originariamente su Wired US.



