Quando il destino le dividerà, a Eleanor toccherà andare a vivere a New York con la figlia e il nipote, sperimentando la solitudine della frenetica vita cittadina, da cui la distoglie la conoscenza del tutto casuale di una ragazza aspirante giornalista (la convincente Erin Kellyman) anche lei reduce da un grave lutto. Per una serie di equivoci Eleanor si ritroverà in un gruppo autoaiuto a testimoniare l’orrore della Shoah, vissuto in realtà dalla sua Bessy, («Hitler mi ha tolto il sorriso»), finendo al centro dell’attenzione collettiva e mediatica. Ma la testimonianza per procura è un tradimento e la deliziosa protagonista dell’opera prima di Johansson passerà per un’incorreggibile bugiarda. Ma è memorabile proprio per questo, perché non ha nulla dello stereotipo della nonna saggia, tutto dei personaggi ironici, caustici alla Harold e Maude, un’irresistibile peperina dalla battuta pronta che non ha perso la voglia di ridere e sbagliare. Del resto anche lei è a modo suo una sopravvissuta, reduce dalla morte del marito e dalla perdita della migliore amica, dai traumi e dai vuoti di queste mancanze incolmabili.
Ora, è vero che la commedia di Johansson non spicca per originalità, né a livello di tema – anche film come Marco di Aitor Arregi e Jon Garano raccontano un protagonista che si spaccia per sopravvissuto all’Olocausto – né per messa in scena. Tuttavia Eleanor The Great si fa amare, perché rifugge il dramma privo di ironia e ha guizzi di scrittura apprezzabili nei dialoghi. Risente poi evidentemente dell’influenza di registi come Wes Anderson e Woody Allen. Insomma, per quanto lo faccia attraverso uno sguardo più convenzionale che strettamente autoriale, Johansson riesce a firmare una commedia dai grandi sentimenti, capace di far sorridere, piangere, emozionare. Buona la prima, Scarlett.
