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Procreazione medicalmente assistita, ci sono 31mila embrioni congelati ma molti resteranno bloccati per sempre

da | Mag 25, 2025 | Tecnologia


Migliaia di embrioni congelati nei centri di procreazione medicalmente assistita (pma) italiani non hanno futuro. Sarebbero oltre 31mila, secondo la relazione del ministero della Salute sullo stato di attuazione della Legge 40 del 2004 (quella che regola la pma nel nostro paese).

Molti di questi non verranno (mai) più utilizzati dalle coppie originarie, e siccome in Italia la legge non consente né di donarli ad altre coppie né di destinarli alla ricerca scientifica né di distruggerli – come avviene invece in altri paesi, anche europei – l’unica opzione è il congelamento “eterno” in azoto liquido: una condizione che molti medici definiscono “accanimento conservativo”, perché ha costi altissimi e nessuna logica, se non quella ideo-logica. Perché – vale subito la pena sottolineare – qui non si parla di feti, ma di blastocisti di tre-cinque giorni, ossia di un insieme di cellule prive di qualunque struttura o funzione, più piccole di una capocchia di spillo e invisibili a occhio nudo.

Forzature

Riformare questa situazione sarebbe auspicabile. Ma farlo passando per una forzatura linguistica e simbolica come nell’ipotesi annunciata dalla ministra per la Famiglia e le pari opportunità Eugenia Roccella rischia di spostare il piano del dibattito dalla tutela delle persone coinvolte – coppie, donne, eventuali figli – a quello della propaganda ideologica. La ministra ha infatti ventilato l’intenzione del governo di “regolamentare l’adozione degli embrioni” congelati e rimasti inutilizzati, dopo che le coppie si sono sottoposte a procedimenti di fecondazione assistita.

Nel linguaggio medico e legale della procreazione medicalmente assistita, invece, comunemente si parla di donazione di embrioni, non di adozione. Con “donazione” si indica infatti la possibilità – prevista anche in Spagna, Belgio, Cipro e Regno Unito – di trasferire embrioni già formati e ritenuti idonei al concepimento a coppie che accedono a un percorso di pma. È dunque un’altra pratica di riproduzione assistita che, a una donna, permette di ricevere uno o più embrioni fecondati in laboratorio e crioconservati, provenienti da coppie che, dopo aver ottenuto una o più gravidanze, decidono di donarli – senza compenso – ad altre persone (abbattendo notevolmente i costi perché il prezzo di una embriodonazione varia dai duemila ai seimila euro a seconda del paese, che è relativamente poco).

Ma perché si producono tutti questi embrioni?

In un ciclo di fecondazione in vitro, grazie alla stimolazione ormonale a cui si sottopone la donna, si producono più ovociti che in un ciclo naturale e, una volta fecondati, gli embrioni in “sovrannumero”, cioè non utilizzati subito per un transfer in utero ma reputati comunque idonei al concepimento, possono essere crioconservati e rimanere a disposizione delle coppie per transfer successivi e/o successive gravidanze (evitando in questo modo di ripetere daccapo tutto l’iter). Che cosa accade, però, quando le coppie decidono che quegli embrioni a loro non servono più? Nulla, almeno in Italia.

Il vuoto della legge 40

La legge 40 del 2004, in realtà, non affronta nello specifico la questione del “destino” degli embrioni e del loro (eterno) stoccaggio, e non lo fa perché già in origine non prevedeva la produzione di embrioni in sovrannumero (il testo, lo ricordiamo, non è mai stato modificato nel corso degli anni, anche se la sua applicazione è radicalmente cambiata per gli interventi dei tribunali e della corte costituzionale). Nella legge, infatti, si vieta la produzione di più di tre embrioni in laboratorio, obbligando l’impianto di tutti gli embrioni prodotti in un unico trasferimento in utero (con conseguenti rischi per la salute della donna, che andava spesso incontro a gravidanze multiple). Nonostante il dettato normativo sia rimasto uguale, questo punto sugli embrioni è di fatto decaduto: ciò che rimane, però, è proprio l’obbligo per i centri di procreazione medicalmente assistita di mantenere gli embrioni crioconservati sine die.

Questioni “collaterali”

La legge 40 del 2004, dunque, non consente alcuna destinazione per gli embrioni sovrannumerari, se non la loro conservazione a tempo indeterminato. Nessuna donazione, nessuna ricerca (ad esempio per le malattie rare), nessuna possibilità alternativa: gli embrioni restano sospesi in un limbo. Il che costituisce un paradosso biologico e giuridico che si riflette anche sul piano umano. Come ha fatto notare la professoressa Eleonora Porcu, luminare della procreazione assistita in Italia, intervistata da chi scrive nel libro Come nascono (davvero) i bambini oggi (Mimesis): “Dal momento che un embrione appartiene alla coppia, che cosa ne è di quell’embrione se poi la coppia si separa o divorzia?”. La domanda non è per nulla campata in aria e la risposta nient’affatto scontata: persino la corte costituzionale è stata chiamata a esprimersi su questa fattispecie.

Il rischio di chiamarla “adozione”

Chiamare “adozione” l’eventuale utilizzo di un embrione crioconservato significa tuttavia anticipare la piena soggettività giuridica e morale di un essere non ancora venuto al mondo, né, addirittura, formatosi. Significa assegnare a un agglomerato di cellule uno statuto simbolico vicino a quello di una persona, spostando il dibattito dal campo della medicina riproduttiva a quello della bioetica religiosa e della biopolitica. E significa quindi attribuire all’embrione uno statuto che rischia di mettersi in contrasto con altri diritti fondamentali, a partire da quello delle donne di scegliere sul proprio corpo. Il rischio boomerang, insomma, è che dietro un apparente atto di tutela si cerchi di ridefinire il significato stesso di persona, di genitorialità, di autodeterminazione.

È un “buon” – con molte virgolette – esempio di come il linguaggio possa diventare un veicolo per cambiare il senso delle leggi, prima ancora che le leggi stesse. Perché le parole, si sa, plasmano la realtà. E dire “adozione” anziché “donazione” non è solo una questione di vocabolario, ma di visione del mondo: quella che trasforma l’embrione in persona, e la donna in incubatore.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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