“Taco” è diventato in pochi giorni il nuovo tormentone di Wall Street. L’acronimo, che significa letteralmente Trump always chickens out – Trump fa sempre marcia indietro – è stato coniato lo scorso 2 maggio dal columnist del Financial Times Robert Armstrong, al punto che mercoledì scorso è arrivato fino alla sala stampa della Casa Bianca, provocando la reazione stizzita del presidente. Durante una conferenza stampa, una giornalista ha chiesto al presidente un commento sul fatto che alcuni analisti definiscono la sua strategia tariffaria “Taco trade”. Trump ha liquidato la domanda definendola “disgustosa” e sostenendo che le sue decisioni non costituiscono affatto un arretramento, bensì una tattica negoziale. Quella che nel linguaggio di Wall Street viene descritta come una mossa da “chicken out” – espressione inglese usata per indicare chi si ritira all’ultimo momento – sarebbe, secondo il presidente, parte di una strategia ben precisa: lanciare minacce aggressive per poi offrire concessioni ponderate, in una forma di negoziazione commerciale a suo dire sofisticata.
Taco, anatomia di una strategia
Il termine “Taco” ha preso piede proprio perché descrive con sorprendente accuratezza un comportamento ricorrente dell’amministrazione Trump. Secondo un’analisi di Nbc News, sono almeno dieci i casi in cui il presidente ha annunciato dazi severi per poi fare retromarcia, dando forma a un pattern così prevedibile da generare strategie di investimento specifiche. Il caso più recente riguarda l’Unione europea: Trump aveva minacciato venerdì scorso una tariffa del 50% sui beni continentali, salvo poi posticipare la misura al 9 luglio dopo una conversazione telefonica con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
La dinamica si ripete con variazioni sul tema ma con una costanza impressionante: annuncio di tariffe punitive, volatilità immediata sui mercati, e successivo ripensamento presidenziale nel giro di ore o giorni. Nel caso del Canada e del Messico, Trump aveva imposto il 25% di tariffe per combattere il traffico di fentanyl, solo per sospenderle un giorno prima dell’entrata in vigore. Lo stesso schema si è poi manifestato anche con la Cina, dove le tariffe erano state portate al 145% per poi essere ridotte al 10% (per un periodo di negoziazione di 90 giorni): in quel caso il presidente aveva giustificato l’escalation come necessaria per riequilibrare la bilancia commerciale.
La strategia Taco, però, non è stata applicata soltanto nei confronti di singoli paesi, ma ha riguardato anche settori industriali specifici come l’automotive e l’elettronica. Ad esempio, Trump aveva annunciato tariffe del 25% sugli iPhone a meno che Apple non spostasse la produzione negli Stati Uniti, salvo poi vedere i suoi consiglieri economici ridimensionare la portata della misura. Del resto, anche il settore dei giocattoli è finito nel mirino presidenziale, con Trump che aveva minacciato tariffe del 100% su Mattel, per poi suggerire che gli Stati Uniti fossero più interessati a riportare in patria produzioni ad alto valore aggiunto piuttosto che beni di consumo di massa.
Tribunali e mercati
Proprio mentre l’acronimo Taco guadagnava popolarità sui mercati, è arrivata una battuta d’arresto giudiziaria che ha complicato ulteriormente il quadro delle politiche tariffarie trumpiane. La Corte commerciale internazionale degli Stati Uniti ha stabilito mercoledì che Trump avrebbe superato i suoi poteri costituzionali nell’imporre tariffe generalizzate, stabilendo che l’International Emergency economic powers act del 1977 non conferisce al presidente un’autorità illimitata in materia di dazi. I tre giudici – nominati rispettivamente da Obama, Reagan e dallo stesso Trump – hanno emesso un’ingiunzione permanente che blocca l’implementazione delle tariffe più ampie, incluse quelle del “Liberation Day” annunciate il 2 aprile.
La decisione giudiziaria ha scatenato una reazione immediata sui mercati asiatici, con gli indici di Tokyo e Seoul che hanno fatto registrare un rialzo di quasi il 2% nella prima occasione utile per reagire alla notizia. Tuttavia, l’entusiasmo si è rapidamente smorzato quando è emerso che l’amministrazione Trump aveva immediatamente presentato ricorso, e che giovedì sera la Corte d’appello federale aveva temporaneamente sospeso la decisione del tribunale di primo grado. Le tariffe, dunque, restano in vigore almeno fino alla conclusione del procedimento, che potrebbe arrivare fino alla Corte Suprema. Di conseguenza, aziende e investitori si trovano costretti a navigare in un contesto di instabilità prolungata, con piani industriali congelati e catene di fornitura in bilico.