La fine delle ostilità ha eliminato il premio geopolitico e il petrolio ha iniziato a scendere rapidamente, tornando sotto i 70 dollari. Gli analisti americani ora prevedono che il Brent possa toccare i 59 dollari al barile nel 2026. A questa caduta contribuisce anche la guerra commerciale di Trump contro la Cina, il maggior importatore mondiale di energia. I dazi americani rischiano di rallentare l’economia cinese e quindi di ridurre la domanda di petrolio. Contemporaneamente, l’Opec+ ha deciso di aumentare la produzione dopo mesi di tagli. Il risultato è un mercato con troppa offerta e domanda in calo: la ricetta perfetta per far crollare i prezzi.
Il labirinto fiscale che blocca i ribassi
Il crollo del petrolio si scontra, tuttavia, con la struttura del mercato italiano che impedisce ai ribassi di arrivare fino ai consumatori. Il primo ostacolo sono le tasse: su ogni litro di benzina che costa 1,74 euro, ben 1,30 euro vanno allo stato tra accise (73 centesimi) e Iva (22%). Quando il petrolio scende di 10 dollari al barile, teoricamente il prezzo della benzina dovrebbe calare di circa 20 centesimi, ma se le tasse restano fisse il consumatore ne vede solo una piccola parte. A rendere la situazione ancora più complessa è intervenuta, da maggio, una riforma delle accise voluta dal governo che prevedeva un aumento di 1,5 centesimi sul gasolio e una riduzione equivalente sulla benzina, con l’obiettivo di uniformare gradualmente la tassazione dei due carburanti senza costi aggiuntivi per lo Stato. Ma secondo l’Unione nazionale consumatori “a_ll’aumento del gasolio doveva corrispondere un calo analogo della benzina. Ma così non è stato_”, come ha denuncia il presidente dell’associazione Massimiliano Dona in una nota. Per questo motivo l’associazione ha deciso di presentare un esposto all’Antitrust.
Il secondo problema riguarda il comportamento dei gestori delle stazioni di servizio. Quando i prezzi internazionali salgono, aumentano immediatamente i listini per non perdere soldi. Ma quando scendono sono molto più lenti perché devono smaltire le scorte comprate a prezzi elevati durante la crisi bellica. È come se avessero benzina pagata cara nei serbatoi e non volessero venderla sottocosto. I dati europei confermano che l’Italia mantiene prezzi superiori alla media continentale: 1,70 euro al litro contro 1,46 euro della media Ue.
Il terzo fattore è la speculazione finanziaria sui mercati dei carburanti. I prezzi al dettaglio non seguono solo le quotazioni del petrolio greggio, ma anche quelle dei prodotti raffinati che hanno dinamiche diverse. Durante l’attuale escalation in Medio Oriente, i trader hanno scommesso sui rialzi creando bolle speculative che ora faticano a sgonfiarsi. L’Unione Nazionale Consumatori ha denunciato nell’esposto all’Antitrust come questa disconnessione sia diventata “abnorme”, chiedendo verifiche sul rispetto delle regole di concorrenza. Il monitoraggio americano evidenzia come la volatilità dei mercati energetici renda sempre più difficile distinguere tra dinamiche legittime e possibili manipolazioni speculative, soprattutto in un contesto dove i prezzi possono oscillare del 7% in una sola giornata come accaduto durante il conflitto.