Uno di quei casi di cronaca di cui si parla per due settimane, giusto il tempo che serve a indignarsi e poi passare al prossimo scandalo.
E invece no. Il caso di Elena Maraga, l’insegnante d’asilo licenziata dopo che una madre ha segnalato all’istituto la presenza di un suo account su OnlyFans, continua, a sorpresa, a tenere banco. Negli ultimi giorni, l’ex docente ha fatto sapere di voler procedere su due fronti legali distinti: da una parte contro il padre di uno dei suoi studenti, che dopo aver acquistato i contenuti li ha diffusi nella più classica delle chat del calcetto. Dall’altra contro la schiera di haters, i classici leoni da tastiera che l’hanno sommersa di insulti sui social dopo l’esplosione mediatica del caso.
Un marasma che ha “fatto anche cose buone”: l’account OnlyFans della Maraga è decollato; voci di corridoio e pettegolezzi sussurrano che al momento guadagni intorno ai 40mila euro al mese. Non male passare da 1200 a quello che prende un dirigente in un anno. Ma al di là del successo (o del polverone non necessario), resta da chiarire un punto importante: la diffusione di video di OnlyFans rubati può configurare il reato di revenge porn?
Diffondere video di OnlyFans rubati: cosa dice la legge
Non volendoci affidare al semplice buon senso, abbiamo chiesto chiarimenti a Riccardo Lanzo, avvocato esperto di diritto digitale.
“Il revenge porn, previsto dall’articolo 612-ter del codice penale – spiega Lanzo – punisce chi diffonde contenuti sessuali espliciti senza il consenso della persona ritratta, soprattutto se quei contenuti erano originariamente privati. In questo caso, i contenuti sono venduti consapevolmente, in un contesto pubblico e commerciale sul sito OnlyFans. Quindi, parlare di revenge porn in senso stretto è improprio.
Questo però non significa che sia lecito condividerli: l’acquirente ha il diritto di guardarli, non di diffonderli. Chi lo fa, viola il diritto all’immagine e allo sfruttamento economico del contenuto. In casi del genere, si può chiedere un risarcimento per il danno patrimoniale e morale subìto”.
In sostanza: non si tratta di revenge porn, ma di un’altra violazione — più legata al danno economico e d’immagine che alla sfera della privacy. Due ambiti vicini, ma giuridicamente separati. E no, non sono dettagli ma concetti da tenere bene a mente.
Il reato di diffamazione
Molto più tristemente fragile, invece, la questione legata agli insulti ricevuti.
Denunciare chi diffama, minaccia o offende sui social è sacrosanto, ma ottenere una condanna è tutt’altro che semplice. Spesso l’hater è irrintracciabile perché nascosto dietro a un profilo fake. Altre volte, ciò che viene scritto non viene ritenuto abbastanza grave da un giudice o da un pubblico ministero. E ormai nei tribunali si è consolidata l’idea che chi si espone pubblicamente — politici, artisti, influencer — debba essere più ‘tollerante’ verso gli attacchi verbali ricevuti.
Ma siamo davvero sicuri che questa ‘tolleranza selettiva’, auspicata da giudici e procure, sia la strada giusta per combattere una delle peggiori piaghe digitali degli ultimi anni?
Perché a guardarla da fuori, più che un invito alla resilienza, suona come un premio ai vigliacchi:
quelli che offendono nascosti dietro uno schermo, sapendo che chi si espone dovrà, per statuto non scritto, tacere e sorridere a denti strettissimi.
Ecco, forse è ora di riscriverlo, quello statuto.