Ambrosia Fortuna entra in scena come una visione fuori fuoco: la riconosci, ti attrae istantaneamente, ma non riesci a incasellarla. Una presenza che vibra tra sacro e profano, tra performance e confessione, tra la Napoli arcaica dei femminielli e la Gen Z del Club Venus. Da più parti è stata definita “Femminiello 2.0”, ma ogni definizione sembra già vecchia quando le si avvicina. Videomaker, performer, fotografa, icona queer suo malgrado, Ambrosia non interpreta un personaggio: semmai, smonta l’idea stessa di personaggio.
Il suo corpo è insieme alfabeto e linguaggio, le sue opere un lessico fluido fatto di immagini sporche, viscerali ma formalmente perfette, erotiche e politiche senza mai diventare propaganda. Ambrosia appartiene a una generazione che non chiede spazio, ma lo plasma. Una generazione per cui l’identità non è una bandiera, ma un processo, una contraddizione, un cortocircuito creativo.
Radicata nella Napoli dei vicoli e dei cortili, Ambrosia incarna una figura ancestrale e insieme ultramoderna. I femminielli napoletani, espressione secolare di identità fluide, sono il punto di partenza ideale per una narrazione che non è revival ma reinvenzione. “Sono un’interferenza”, dice Ambrosia. Un glitch vivente nell’estetica binaria. In lei riecheggia un’intuizione pasoliniana: «Io sono una forza del passato» – ma il passato, qui, si manifesta come presenza futuribile, in mutazione costante.
Il rapporto con il tempo, per Ambrosia, non è mai lineare. “Penso che purtroppo non riesco mai a godermi appieno il presente”, racconta. “C’è sempre qualcosa che mi fa provare nostalgia, o una specie di inquietudine. È come se vivessi in costante oscillazione tra quello che è stato e quello che potrebbe essere. Ma il futuro, per me, fa paura. Quando ci penso, ho spesso visioni tristi, cupe. Forse è per questo che, paradossalmente, riesco a godermi il presente solo quando lo confronto con quel futuro che mi spaventa”.
Alla domanda su chi siano i destinatari delle sue opere, Ambrosia risponde senza esitazioni: “A volte lo faccio solo per me. Ho bisogno di vedere le cose uscire fuori da me, come se dovessi liberarmene. Non le creo perché siano necessariamente rivolte a qualcuno. Ma nel momento in cui prendono forma, mi aiutano a capire chi sono”.