Ogni occasione è buona per fare propaganda. Lo sa bene il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che dice di aver risolto sei guerre nei primi sei mesi del suo secondo mandato durante i colloqui alla Casa Bianca del 18 agosto sulla crisi ucraina.
Trump ha dichiarato di aver “risolto sei guerre nei primi sei mesi del suo secondo mandato“. Per poi aggiungere che il conflitto tra Mosca e Kyiv sarà il suo settimo successo diplomatico. La dichiarazione ha subito suscitato dubbi sulla sua veridicità e sul reale ruolo del presidente in questi conflitti e perciò alcuni cronisti del Guardian hanno provato a verificarla: il risultato è che se è pur vero che gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo in almeno sei crisi da quando Trump è stato rieletto — Armenia e Azerbaigian, Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, India e Pakistan, Cambogia e Thailandia, Israele e Iran, oltre che i precedenti Egitto ed Etiopia e Serbia e Kosovo — un’analisi più approfondita mostra una realtà molto più complessa. Molti di questi presunti successi sono infatti parziali, temporanei o contestati dai governi coinvolti, e ridimensionano in modo significativo le rivendicazioni del presidente.
Trump ha davvero risolto sei guerre?
I conflitti più recenti
Il successo più concreto degli Stati Uniti dall’ultima elezione è probabilmente quello che riguarda il recente accordo tra Armenia e Azerbaigian. L’8 agosto, i leader dei due paesi hanno firmato un accordo di pace alla Casa Bianca, ponendo fine a decenni di conflitti culminati nel 2023 con la conquista azera del Nagorno-Karabakh, territorio conteso tra i due paesi ma abitato prevalentemente da armeni. L’intesa prevede anche l’apertura della Trump route for international peace and prosperity, un corridoio di transito che collegherà l’Azerbaigian al suo exclave Nakhchivan attraverso 32 chilometri di territorio armeno. Gli Stati Uniti otterranno diritti di sviluppo esclusivi in questa area per 99 anni. L’accordo però non cancella le ferite del passato: molti armeni lo vedono con amarezza perché arriva dopo la brutale espulsione di oltre 100mila persone dal Nagorno-Karabakh avvenuta nel 2023. Sul fronte geopolitico, l’Iran ha minacciato di bloccare il corridoio temendo che rafforzi l’influenza occidentale nella regione.
Ben diversa la situazione in Africa. La Repubblica Democratica del Congo e il Rwanda hanno siglato il 27 giugno un accordo chiamato Washington accord per fermare il conflitto che ha provocato lo sfollamento di milioni di persone nella regione dei Grandi Laghi africani. Trump ha dichiarato che la violenza sarebbe giunta al termine, ma la realtà si è rivelata più complessa. . L’accordo prevedeva il ritiro delle truppe ruandesi dal territorio congolese entro 90 giorni, operazione effettivamente completata, ma non riguardava il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Rwanda. Da allora, l’esercito congolese e i ribelli M23 si sono accusati reciprocamente di violazioni, con attacchi e movimenti di truppe. I ribelli non hanno inoltre rispettato la scadenza del 18 agosto per raggiungere un accordo di pace definitivo nei colloqui di Doha, il che ha messo in luce la fragilità dell’intesa promossa dagli Stati Uniti.
Il caso più delicato rimane quello mediorientale. Tra Israele e Iran c’è stato una conflitto aperto durato dodici giorni tra il 13 e il 24 giugno che Trump ha effettivamente contribuito a fermare. Dopo che Israele aveva lanciato attacchi contro installazioni nucleari iraniane, Washington ha autorizzato bombardamenti mirati contro tre siti nucleari di Teheran utilizzando ordigni bunker-buster. Trump ha poi mediato un cessate il fuoco che sembra reggere tuttora, anche se un rapporto di intelligence americano ha valutato che gli attacchi americani abbiano solamente ritardato il programma nucleare iraniano di alcuni mesi senza perciò essere riusciti ad eliminarlo completamente. Il conflitto ha causato 610 morti in Iran secondo il ministero della Salute iraniano, mentre Israele ha registrato 28 vittime. Trump si è riservato il diritto di nuovi attacchi qualora l’Iran riprendesse le attività nucleari militari.
I casi più controversi e i precedenti
India e Pakistan rappresentano il caso più contestato. Il 10 maggio Trump ha annunciato un cessate il fuoco completo e immediato dopo quattro giorni di scontri nel Kashmir scatenati da un attentato del 22 aprile che aveva ucciso 26 persone. Tuttavia, l’India ha respinto categoricamente l’idea che Washington abbia mediato la tregua. Il primo ministro Narendra Modi ha chiarito a Trump che il cessate il fuoco era stato raggiunto attraverso canali militari diretti tra i due paesi, non tramite mediazione americana. Nuova Delhi sottolinea la propria opposizione storica a qualsiasi intervento esterno nella disputa del Kashmir, preferendo gestire la questione bilateralmente. Il rifiuto indiano ha contribuito al deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti, mentre violazioni del cessate il fuoco sono state segnalate già poche ore dopo l’annuncio.