Una tempesta di polvere gialla si abbatte su una città dell’Algeria. Ovunque imperversa un vento dorato, un deserto circonda la città e ne contamina i profili, le forme, i colori. Con il suo primo lungometraggio, Silent Storms, la regista franco-algerina Dania Reymond-Boughenou ci accompagna nella vita di Nacer (Khaled Benaïssa), un giornalista deciso a indagare l’origine delle tempeste di sabbia, o almeno a trovarne un senso. Nel corso della sua ricerca, Nacer si accorge che insieme a quella polvere gialla iniziano a manifestarsi altri fenomeni misteriosi: presenze spettrali, come quella di sua moglie Fajar (Camélia Jordana), scomparsa da tempo. Le bufere intanto si infittiscono, la realtà è soggiogata dal suo passato più plumbeo, un tempo violento che tutti cercano di seppellire per poi voltare lo sguardo altrove.
Silent Storms, presentato durante il MedFilm Festival, è un’opera collocata nella nostra contemporaneità in quella che viene definita una città sulle rive di un mare sconosciuto. In questo luogo, dopo dieci anni di terrore, una legge d’amnistia ha posto fine a un conflitto sanguinoso, una guerra che ha contrapposto l’esercito a gruppi di insorti che rivendicavano il potere. Ma la pace, in Silent Storms, è solo un’illusione di superficie. La regista costruisce il film come un viaggio doloroso nella coscienza collettiva di un Paese, in questo caso l’Algeria durante la guerra civile, una realtà in cui le autorità, nel corso del tempo, hanno esercitato un controllo rigido sulla stampa e sulla società civile, precludendo a numerose famiglie ogni possibilità di riconciliazione con un passato funesto e con la scomparsa dei loro cari nelle sabbie del conflitto. L’Algeria è rimasta un luogo di silenzi e di ferite non rimarginate.
La tempesta dorata
Incubi, terre maledette, linee di frontiera invalicabili, incisioni nel paesaggio che sono ferite ancora aperte. Silent Storms si muove dentro questo spazio interiore e collettivo che si mescola alla sabbia e torna a respirare sotto forma di tempesta. Nacer è un essere errante che cerca tanto la verità quanto un segno tangibile, un incontro, una consapevolezza che lo liberi dall’oblio, lo scardini dall’inerzia del tempo che nel film si si ripiega su se stesso, come se la storia fosse prigioniera di un eterno ritorno. Silent Storms è una discesa dolorosa e viscerale nei recessi nascosti dell’anima di un Paese, un territorio stretto tra un dolore mai elaborato, paura, perdita e colpa condivisa. La stratificazione e l’elaborazione di un lutto collettivo e di un trauma personale ancora presente, in un’area rurale martoriata dalle violenze del colonialismo francese e dalla guerra civile, vengono simbolizzati attraverso polvere, sabbia, foschia, nebbia, incarnando ciò che la memoria collettiva ha tentato di seppellire.
Silent Storms è un tentativo nobile e ambizioso di affrontare di petto la responsabilità politica e civile di un conflitto, è il modo più affilato e intelligente per suggerire che per una nazione, per un paese e per chi lo abita, affastellare traumi senza possibilità di attraversare la soglia della transizione, ti avvelena lentamente e ostacola ogni possibilità di cambiamento, come un suono soffocato dal vento, un passato non elaborato che continua a dettare il presente. La regista ci accoglie in una storia che fonde reale e fantastico, una storia di fantasmi e di presenze perimetrate da un linguaggio che condensa dentro di sé i sapori del thriller politico con grande abilità.



