Non ce ne vogliano il (pur) sempre ottimo regista Stefano Sollima e il suo staff, perché quello de Il Mostro non è certamente un caso isolato. Sempre più spesso, infatti, le parole – e in particolare le sillabe finali – dei dialoghi di fiction e serie tv italiane vengono sospirate, sussurrate e all’orecchio dell’uditore si perdono in un refolo di vento. L’ignaro spettatore, a quel punto, prova ad alzare il volume, avvicina a sé le casse del computer o del televisore, inizia a spippolare nei meandri del menu e delle impostazioni di sistema, alla ricerca di un allineamento sonoro miracoloso, ma niente, poi si deve arrendere. E così: audio >> originale. Sottotitoli >> italiano. Sempre più spesso, infatti, le parole – e in particolare le sillabe finali – dei dialoghi di fiction e serie tv italiane vengono sospirate, sussurrate e all’orecchio dell’uditore si perdono in un refolo di vento
Il parere di sua «eminenza» Luca Ward
La certificazione di quanto il problema sia reale e molto (poco) sentito arriva da una eminenza della dizione e della recitazione in Italia, che noi di Wired abbiamo interpellato al riguardo, Luca Ward. “Io certi nostri attori, ormai, non li capisco nemmeno quando parlano a due metri da me, sul set”, sentenzia il noto attore e doppiatore italiano, iconica voce di tantissime star di Hollywood, tra cui Il Gladiatore Massimo Meridio Decimo Russel Crowe, che tornerà a doppiare nei panni di Göring nel film Norimberga, dal 18 dicembre nelle nostre sale.
Luca WardElisabetta A. Villa/Getty Images
“Si tratta di un annoso problema di cui noi attori “maturi” siamo ben consapevoli. È una storia cominciata qualche anno fa, quando già alcuni registi, durante le riprese, cominciavano a chiedere “senti, questa parola puoi buttarla un po’ via?” – “Buttarla via, e che significa?”. Una volta mi è stato anche chiesto di abbassare il mio tono di voce perché gli altri non riuscivano a eguagliarlo. E perché avrei dovuto abbassarlo io e non far salire il loro?, mi domandavo”. Da quel momento, secondo Ward, è cominciato tutto. O piuttosto «finito», a seconda dei punti di vista (e di udito). “Purtroppo, da noi, si tende a confondere il tono drammatico con l’incomprensione lessicale, ma veder recitare un attore di cui non si capisce nulla quando parla è molto grave: è come far pilotare un aereo a qualcuno senza brevetto. Per arrivare al pubblico, infatti, è richiesta innanzitutto la comprensibilità: come fai, sennò, a emozionare gli spettatori, se quelli neanche capiscono ciò che stai dicendo”.
Al netto dell’ironia di Ward («a volte capisco meglio le serie tv coreane, giuro»), l’attore e doppiatore – nonché docente di dizione presso l’Accademia Nazionale della Voce di Daniela de Meo – è convinto che alla base ci sia soprattutto una lacuna nella formazione e nella preparazione. “Quanti attori che oggi fanno televisione hanno calcato prima un palcoscenico e fatto teatro, in vita loro? Pochi. Pierfrancesco Favino, Lino Guanciale, che infatti sono bravi, e li capisci quando parlano. Piuttosto, tanto vale allora fare solo “serie verità”, dove ci sono persone vere che dialogano e sono molto più comprensibili di certi nostri interpreti”. Come fa un attore a emozionare gli spettatori, se quelli neanche capiscono che cosa sta dicendo?
Più di qualcuno, però – online e non solo – tende a scagionare gli attori o quantomeno a ridurne la responsabilità, imputando la scarsa comprensione al missaggio e/o alla registrazione audio in presa diretta. Provo quindi a rigirare questa domanda a Ward: «Se gli attori si ridoppiassero poi in sala migliorerebbe qualcosa?». Risposta: “Al doppiaggio quegli attori sarebbero rovinati. A me, di recente, hanno chiesto di ridoppiare un attore italiano ma non ci penso minimamente, neanche se mi ricoprissero d’oro. Però è un peccato perché invece i nostri tecnici sono i migliori del mondo”.
Il parere tecnico
La stessa domanda – e cioè se la difficile comprensione dei dialoghi possa derivare anche da qualche “inganno” tecnico, e non (solo) dalla dizione precaria dei nostri attori – l’ho posta anche a una persona che con il suono lavora da anni. Leopoldo Di Lenge, sound designer e podcast producer, spiega: “Oggi, le piattaforme devono garantire che il suono risulti comprensibile sia su un televisore di trent’anni fa sia su un moderno schermo 4K con soundbar integrata. Per farlo, il sistema converte automaticamente il mix multicanale in un segnale stereo — un processo chiamato downmix – e non è un fonico a occuparsi di questa conversione: avviene in automatico tramite un algoritmo che “traduce” il segnale complesso in due canali, destro e sinistro. Questo passaggio, inevitabile per motivi di budget e di distribuzione, comporta però una perdita di controllo: i livelli di voce, musica ed effetti non vengono bilanciati da un orecchio umano, ma da un software. E così può capitare che i dialoghi restino sommersi dalla colonna sonora o dagli effetti ambientali, soprattutto su televisori con impostazioni audio “virtual surround” o simulazioni spaziali non ottimizzate”.



