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A quarant’anni dalla morte, Elsa Morante con la sua letteratura non ci consola ma ci costringe a vedere e sentire

by | Nov 25, 2025 | Tecnologia


Roma, 25 novembre 1985. Nella clinica di Villa Margherita si spegne Elsa Morante, una delle voci più radicali, luminose e inclassificabili della letteratura italiana del Novecento. Quarant’anni dopo, la sua opera non è un oggetto da esposizione, ma una forza ancora viva, un’urgenza. Le sue pagine hanno conservato una temperatura morale, un’idea di letteratura intesa come ferita, necessità e rivelazione.

Morante è una delle pochissime donne entrate stabilmente nel canone letterario italiano del Novecento, accanto a Natalia Ginzburg. Due scritture lontanissime, le loro, due visioni del mondo agli antipodi. Ma due donne unite da un rispetto profondo. In un’intervista, Ginzburg disse di considerarla “uno dei grandi scrittori del nostro secolo. E aveva ragione a volere che si dicesse scrittore: quando si scrive, si scavalca il proprio sesso”. Ma mentre la prosa di Ginzburg ha costruito una grammatica dell’intimità, Morante ha tentato un’altra strada: trasformare il dolore in epica, raccontare l’infanzia come luogo di verità e la Storia – quella con la S maiuscola – come una macchina mitologica che schiaccia i più deboli.

La sua opera più celebre, La Storia, uscì nel 1974 direttamente in edizione economica, a 2.000 lire a copia. Non fu un capriccio editoriale, ma un gesto politico. Morante voleva che il romanzo fosse accessibile a chi non entrava nelle librerie, a chi la guerra l’aveva vista o la stava ancora vivendo nelle forme quotidiane della miseria. Il romanzo fu un terremoto con tirature record, polemiche e un dibattito infuocato che divise il Paese. Non per il suo presunto catastrofismo, come dissero alcuni critici, ma perché Morante metteva in scena l’innocenza massacrata senza filtri: La Storia è un atto d’accusa, un poema tragico travestito da romanzo popolare. Un libro che non cerca di consolare, ma di scuotere.

Morante viene spesso ricordata per l’infanzia come chiave del mondo. Ma non era nostalgia: era una forma di conoscenza. Sosteneva che i bambini sono i veri abitanti della vita, perché sentono la realtà senza le sovrastrutture che gli adulti costruiscono per difendersi. Nei suoi romanzi – da L’isola di Arturo a Menzogna e sortilegio fino ad Aracoelil’infanzia non è un ricordo, ma una categoria metafisica: è la parte vulnerabile dell’umanità; la parte che il mondo tenta continuamente di cancellare.

Il suo stile è un continente a sé: barocco e popolare, visionario e concretissimo, capace di far convivere epica e miseria, rivelazione e cronaca. La critica disse che nessuno scriveva come Morante, e ancora oggi, a distanza di decenni, la sua lingua resta immediatamente riconoscibile, perché senza la pretesa di essere “bella”, ma necessaria.

E oggi, che i lettori la stanno riscoprendo, è facile intuire perché: Morante parla del trauma, della solitudine, dell’identità, della fame d’amore, della violenza invisibile che attraversa le relazioni. Temi che non sono passati, hanno semplicemente mutato forma: Morante non credeva nella letteratura come consolazione, credeva nella letteratura come atto di resistenza contro l’ingiustizia, l’ipocrisia, la disumanizzazione, la ferocia. Leggerla oggi significa compiere lo stesso gesto che lei compiva scrivendo: guardare il mondo senza sconti, non per disperarsi, ma per liberarsi; per riconoscere, dietro la superficie levigata delle cose, ciò che resta ferito e vivo.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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