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giovedì, Set 19

“Turbolenza” di David Szalay è un libro sui misteri del volo e dell’uomo


Tra code al gate e paura di volare, nel romanzo dell’autore canadese l’aeroplano e la condizione effimera del viaggiatore diventano un’efficace metafora delle vicende umane

(foto: David McNew/Getty Images)

Eccolo, finalmente, il Grande romanzo aviatorio: David Szalay – già autore del pregevole Tutto quello che è un uomo (Adelphi) – torna in libreria grazie allo stesso editore con Turbolenza, un efficace affresco di storie che hanno come minimo comune denominatore l’aeroplano, inteso non semplicemente come mezzo di spostamento di massa simbolo della contemporaneità – ogni capitolo del romanzo, narrato dal punto di vista di un personaggio diverso, ha il nome di una tratta aerea – quanto come una condizione instabile e precaria dell’animo umano, una metafora mai esplicita, e forse proprio per questo potentissima.

Come nel precedente romanzo dell’autore canadese, a fare da raccordo alle parabole personali di questo libro – nato da una serie radiofonica in onda su Bbc Radio 4 – è la condizione effimera e stralunata del viaggiatore: i personaggi sono soli in hotel malinconici, su Uber lanciati verso l’aeroporto o impegnati a programmare vacanze e complicati ritorni a casa. Ma in Turbolenza il respiro, se possibile, è ancora più ambizioso: l’esperienza del volo per Szalay – si capisce – è intrinsecamente estrema, e questa finta normalità, a metà tra l’inquietudine e l’estasi, dona ai protagonisti del libro di un’umanità che sembra essersi rarefatta come l’ossigeno ad alta quota: “Questi voli malinconici hanno molto da dire sull’umana provvisorietà”, ha scritto parlando di questo libro il critico letterario del New York Times, Dwight Garner. Non esiste una condizione più adatta alla riflessione sull’essere vivi di un jet lanciato a velocità folle a 12mila metri d’altezza, per cui tanto vale lasciare al gate le maschere e i sotterfugi: in cielo siamo soltanto noi stessi, nel bene e nel male.

Chi scrive quest’articolo soffre da sempre di un’incurabile paura di volare, e nei racconti di Turbolenza risalta – descritto con encomiabile esattezza – tutto il prontuario dell’aerofobico: l’ossessiva attenzione per i rumori, anche minimi, in cabina (a partire dal “rumore dei motori, un rumore monotono come di una grossa cascata da qualche parte lì vicino” descritto all’inizio di un capitolo); l’impossibilità di ricondurre alla razionalità quel che sta succedendo intorno a sé (come l’anziana donna che durante una forte turbolenza “si guardò intorno, quasi stupita di essere ancora viva“); l’irrinunciabile legame istintivo con gli altri passeggeri, compagni di una sorte che può diventare tragica da un momento all’altro – almeno secondo noi.

Le persone di Szalay non sono unite soltanto dalla casualità temporanea e quotidiana del viaggio in aereo – che, a dar ragione all’aeroplanino stilizzato degli schermi di bordo, nota la professoressa universitaria Jackie, “avrebbe dovuto essere lungo un migliaio di chilometri”: nella realtà è un puntino circondato dal nulla, ce lo ricordiamo? – ma da un destino esistenziale fatto di caos calmo e imprevedibilità, di tragedie e nuovi amori, di solitudine e di speranze.

Tutto è possibile, per i personaggi fra le nuvole di Turbolenza, e quindi tutto spaventa quanto un sibilo fuori posto o uno sguardo preoccupato sul volto di una hostess. Szalay è bravo a ridurre all’osso le storie dei suoi personaggi (ognuna meriterebbe un romanzo a sé stante), e questa semplicità formale concorre a formare un’atmosfera di straniamento, si potrebbe dire di disagio strisciante. Come un frequent flyer passiamo da un capitolo all’altro, da una storia all’altra, dal mondo di una persona a quello di un’altra a cui ha rivolto la parola per caso sorvolando l’Indocina, come se fosse tutto normale. Oltre ogni inderogabile spiegazione fisica, nel cuore dell’uomo un aereo che vola nel cielo stellato rimarrà sempre un miracolo. E come scrisse Chesterton nella sua opera più famosa, “la cosa più incredibile dei miracoli è che accadono”.

 

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