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martedì, Giu 30

A che punto siamo con l’internet sott’acqua



Da Wired.it :

L’azienda italiana Wsense è all’avanguardia nella creazione di sistemi di comunicazione wireless subacquei, fondamentali per la gestione sostenibile delle risorse sottomarine

Negli ultimi decenni, sulla terraferma abbiamo costruito ampie e intricate autostrade informatiche per connetterci l’un l’altro, ma anche per collegare tra loro oggetti di ogni tipo: è nata così quella che oggi chiamiamo Internet of Things, la rete delle cose interconnesse e smart che svolgono insieme compiti complessi, specie in ambito industriale e produttivo.

Ora c’è chi è all’opera per fare altrettanto sul fondo di mari e oceani – dove i collegamenti wireless tradizionali non funzionano – per sviluppare l’Internet of Underwater Things, le reti di strumenti e sensori con cui monitorare, analizzare, mappare e gestire il mondo sottomarino.

«Siamo una popolazione in crescita che utilizza sempre di più le risorse di mari e oceani per produrre energia, per estrarre i minerali necessari all’industria o come fonte di cibospiega Chiara Petrioli, direttore ricerca e sviluppo per WsenseAffinché tutto ciò resti sostenibile, serve sviluppare un sistema di comunicazione subacquea aperto e a basso costo con cui collegare tra loro e con la terraferma sistemi per la gestione e il monitoraggio subacquei».

Professore ordinario presso il dipartimento di Informatica della Sapienza di Roma, ricercatrice convinta che anche in Italia ci sia spazio e futuro per i talenti, dieci anni fa la Petrioli decide di mettere a frutto l’esperienza maturata dal proprio gruppo di ricerca e dalle collaborazione con realtà internazionali come il MIT per co-fondare Wsense. L’azienda nasce come spin-off dell’Università per mettere a frutto «il comune interesse registrato a livello internazionale per portare tecnologie IoT nell’ambito della blue economy», ovvero l’insieme delle attività economiche sostenibili che riguardano i mari e gli oceani, le coste e i fondali.

Il problema da risolvere è che sott’acqua il wi-fi non funziona, o meglio ha una portata estremamente ridotta. Prima di Wsense, l’unica soluzione possibile era il costoso cablaggio di specifiche porzioni di fondale, realizzato utilizzando tecnologie proprietarie e chiuse. In dieci anni di attività, Wsense ha sviluppato soluzioni brevettate in Europa, Stati Uniti e Israele che superano questo problema implementando tecnologie di tipo Optical Wireless Communications come ad esempio la Visible Light Communication (o VLC), che consente di trasmettere informazioni a larga banda modulando luci led, o i sistemi di comunicazione acustica multifrequenza. Quest’ultimi assomigliano da vicino a quelli usati ad esempio dai cetacei per comunicare, e consentono di coprire distanze anche lunghissime, sebbene trasferendo piccole quantità di dati. Il tutto funziona grazie a un’architettura con API aperte, che consente di integrare facilmente tecnologie e soluzioni sviluppate da terze parti.

Ma perché è così importante creare un Internet of Underwater things? La ragioni sono molte e diverse: innanzitutto perché le acque ricoprono il 71% del pianeta, e di cosa succeda sotto la loro superficie sappiamo ancora relativamente poco. Avere la possibilità di distribuire sensori nella profondità di mari e oceani con costi ridotti e tecnologie non invasive significa poter comprendere meglio vari fenomeni, incluso il cambiamento climatico.

«Uno sfruttamento dei mari di tipo industriale è già in corso da anni – ricorda poi la professoressa Petrioli – e poter monitorare attentamente ogni processo è una condizione necessaria affinché tale sfruttamento sia anche sostenibile». Lo stesso vale per l’acquacoltura, cioè l’allevamento di pesci, crostacei, molluschi e persino alghe con cui sempre più la crescente popolazione terrestre dovrà essere nutrita in futuro.

E poi ancora ci sono il monitoraggio e la cura di beni culturali sommersi, di gasdotti e oleodotti, dei cavi sottomarini in fibra ottica. Per non parlare della possibilità per i sub di comunicare più facilmente quando  impegnati in attività a rischio su fondali pericolosi, per esempio utilizzando tablet appositamente predisposti.

Un’infinità di applicazioni possibili per una tecnologia che è ancora all’inizio della sua evoluzione, ma che è destinata a crescere rapidamente e che, ancora una volta, parla italiano.

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[Fonte Wired.it]