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mercoledì, Ago 26

A cosa serve davvero il referendum sul taglio dei parlamentari?



Da Wired.it :

Ridurre deputati e senatori senza occuparsi dell’assetto istituzionale non inciderà in alcun modo sull’efficienza delle camere né comporterà risparmi significativi. È solo l’esito inevitabile di scandali infiniti e di un decennio di populismo

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(foto: Getty Images)

La riforma sul taglio dei parlamentari è stata approvata in via definitiva lo scorso autunno, dopo la doppia lettura prevista per le leggi di revisione costituzionale (interviene infatti sugli artt. 56, 57 e 59 della Carta). Non avendo però raggiunto nel secondo passaggio la maggioranza qualificata dei due terzi in ciascuna camera, si è aperta la strada del referendum costituzionale. Il quarto della storia repubblicana dopo quelli del 2001 (sulla modifica del Titolo V della Costituzione), del 2006 (sull’assetto la federale immaginato dai saggi di Lorenzago) e del 2016 (la tribolata riforma Renzi che mise fine al governo dei cento giorni). Le ultime due furono bocciate con ampio margine, solo la prima venne confermata dagli elettori a dire il vero con un’affluenza molto bassa (poco più del 34%). Molto probabilmente, però, il referendum in programma per il 20 e 21 settembre è il più inutile di tutti.

Non che non ci siano buone ragioni da entrambe le parti, anche se il solo iter di approvazione spiega molto bene come il percorso della legge si sia inserito nella solita battaglia politica di strettissimo respiro: alla seconda lettura in Senato del luglio 2019 Pd e Leu votarono contro per la terza volta di fila e Forza Italia non partecipò al voto, perché opposizioni al governo Conte I. Tre mesi dopo, con un altro esecutivo (che è poi quello attuale), praticamente tutti i partiti si allinearono sulle posizioni grilline rassicurati da questa o quella promessa su una nuova legge elettorale. Oggi, dopo il cataclisma dell’epidemia e con un paese in crisi nera, gli schieramenti tornano a dividersi anche al loro interno per le ragioni più diverse: da quelle onorevoli, preoccupate della rappresentanza dei territori, ai meri calcoli su quante poltrone, e dunque quanti posti, verrebbero a saltare per ciascun gruppo parlamentare vista l’aria che tira nei sondaggi e non solo.

Scendere a 400 deputati e 200 senatori, dai 630 e 315 scritti nella Costituzione, porta risparmi trascurabili alle casse dello Stato, intorno agli 80 milioni di euro l’anno, meno se considerati netti. Nulla, specie in questa fase, è trascurabile ma certo non è tagliando un po’ di seggi che si raddrizza un paese che marcia in deficit e ha accumulato un debito di 2.530 miliardi di euro. Non prendiamoci in giro, ne va dell’onestà intellettuale di tutti. Se quei soldi vengono messi sul piatto delle ragioni essenziali per votare , sono soldi che valgono come lo scalpo di una generazione politica, quella degli ultimi trent’anni e forse di più. Che d’altronde ha non solo intascato tanto, anzi troppo, ma ha inanellato uno scandalo dietro l’altro fra privilegi e rimborsi che in certi casi sono perfino scomparsi nel nulla. Per cui, sotto questo aspetto, il Movimento 5 stelle ha proposto e voluto una riforma tecnicamente vendicativa, immaginando di farsi interprete del sentimento popolare. Era e sarà forse l’inevitabile esito di un decennio turbopopulista, così come delle malefatte della classe dirigente, ma è un esito di pancia e non di testa. Semplicemente, non serve a niente che non sia già possibile: un bravo tecnico del ministero delle Finanze 80 milioni di euro li trova in 5 minuti nelle pieghe del bilancio statale.

Il problema centrale del lavoro delle Camere non sta infatti nel numero secco dei parlamentari ma nell’efficienza di Camera e Senato. Dunque nell’assetto costituzionale la cui modifica organica, in un senso o nell’altro e non è il caso di riaprire quei vecchi dibattiti, è stata più volte bocciata dagli elettori. Rimane il fatto che, rigettato ogni progetto complessivo, dall’Italia federalista a quella col bicameralismo imperfetto, ci si chiede oggi di accontentarci di una sforbiciata delle poltrone che presa da sola non cambierà di una virgola le logiche parlamentari. E anzi interverrà sulla rappresentanza.

Per alcuni in chiave positiva, riallineandoci ai grandi paesi europei (ma ciascuno ha i suoi assetti istituzionali, difficile confrontarli), per altri con grave indebolimento del rapporto fra eletti ed elettori. Basta infatti ricordare che gli attuali 630 deputati garantiscono all’Italia una rappresentanza di un deputato ogni 96mila abitanti. Un numero in effetti più basso rispetto ad altri paesi come la Germania (1/117mila), la Francia (1/116mila), il Regno Unito (1/102mila) e la Spagna (1/133mila). Come faceva notare Pagella Politica, con la riforma ognuno dei 400 deputati di Montecitorio rappresenterà 151mila cittadini: di botto diventeremmo il paese col rapporto più elevato fra eletto ed elettori tra i 28 stati Ue. Se però si aggiunge il Senato, che in effetti fa le stesse cose della Camera, questo numero torna tuttavia in linea con la Gran Bretagna e un po’ al di sotto di Germania, Francia e Spagna: un rappresentante per 101mila cittadini.

Cifre a parte, il cuore della questione sta davvero su un altro fronte, che ovviamente non viene minimamente sfiorato dal voto del 20 e 21 settembre. Il lavoro avrebbe infatti dovuto essere del tutto inverso: si sarebbero semmai dovuti riscrivere e ripensare tutti i regolamenti parlamentari e le nuove commissioni presentando ai cittadini un piano già pronto per il dopo taglio, spiegando in virtù di quali modifiche due camere dimagrite lavorerebbero meglio di quanto non possano fare quelle attuali.

Inoltre, come spiega Luigi Ippolito sul Manifesto, “il problema non è il numero dei parlamentari, ma la loro funzione e quella dell’istituzione nel suo complesso”. Ricordando le proposte che già negli anni Ottanta vennero avanzate da Stefano Rodotà (che, ironia della sorte, sarebbe diventato un’icona dei grillini) e Gianni Ferrara. I punti? Grandi classici del nostro dibattito politico: abolizione del bicameralismo (è lì che si annidano, davvero, interessi e lungaggini) collegata senz’altro alla riduzione del numero dei parlamentari ma associata a meccanismi di selezione politica più seri da parte dei partiti, alla modifica dell’art. 138 della Costituzione per rendere più difficile alla maggioranza di turno ogni modifica costituzionale a proprio piacimento e ad una legge elettorale proporzionale. Proprio quella su cui Pd e M5s non riescono a mettersi d’accordo da oltre un anno. Oltre che, come si diceva, a una generale revisione dell’iter legislativo.

Tutto questo per rendere il Parlamento, che è il luogo fondamentale della rappresentanza popolare, più forte nei confronti del governo. Senza questo lavoro intorno, il taglio dei parlamentari in sé così come è stato approvato e viene sottoposto ai cittadini (senza un approfondimento adeguato, fra l’altro) è una scorciatoia per menti avvelenate: si riduce a un aumento del rapporto fra elettori ed eletti, a favorire le candidature facoltose (perché per essere eletti nei nuovi collegi, tutti da scrivere pure quelli, ci vorranno molti più voti), alla riduzione della presenza alle Camere, specialmente al Senato, di formazioni locali e, senza le preferenze alle elezioni, al controllo ancora più saldo dei gruppi dirigenti sui parlamentari, d’altronde in ossequio a quel vincolo di mandato contro la Costituzione che è un altro caposaldo dei pentastellati.

Com’è evidente, non ne nascerà alcuna conseguenza in termini di efficienza, almeno sul metodo (sul merito, ovviamente, occorre ragionare di volta in volta): nel corso della precedente legislatura, infatti, i disegni di legge di iniziativa parlamentare sono stati approvati in media dopo 617 giorni, con un allungamento dei tempi rispetto alla XVI legislatura (442 giorni). Insomma, dalla proposta all’approvazione di una legge ci vuole ben più di un anno e mezzo. Viceversa, per le iniziative dell’esecutivo i tempi si abbassano a 218 giorni, comunque 7 mesi. Poche tracce dei testi proposti dalle regioni (nella XVII legislatura solo una proposta venne approvata) e quasi nulla delle iniziative popolari (solo due). Questi sono i fatti, che i deputati siano 600 o 945: tutto il resto è il frutto amaro, ma forse inevitabile, dell’ingordigia prima e del populismo dopo.

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[Fonte Wired.it]