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martedì, Ott 08

Abbandonati da Trump e sotto attacco, che ne sarà dei curdi del Rojava?


L’uscita degli Stati Uniti dal territorio a nord della Siria potrebbe avere conseguenze disastrose, anche per il rischio di un ritorno dell’Isis

Curdi a Derek, Siria (foto: Getty Images)

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, i curdi siriani hanno tentato di ritagliarsi uno spazio autonomo nella regione, combattendo lo Stato islamico e cercando alleanze con gli Stati Uniti. Ma con il consolidamento di quel territorio – il Rojava – le tensioni con il potente vicino, la Turchia, sono soltanto aumentate. Dopo anni di guerra comune contro l’Isis e dopo avergli garantito protezione, lunedì il presidente Donald Trump li ha di fatto scaricati, parlando del ritiro dei propri soldati dal nordest della Siria. Ma c’è già stato una sorta di dietrofront.

Il mezzo passo indietro

È arrivato nella serata di lunedì, quando il Dipartimento della Difesa, guidato da Mark Esperha chiarito che il ritiro riguarderà solo una piccola parte dei soldati americani presenti in Siria. Il guazzabuglio resta però sul tavolo.

La notizia del ritiro era stata accolta da moltissime critiche, perché letta dagli osservatori come un via libera a una possibile invasione della Turchia nel nordest della Siria, in modo da cacciare i curdi e creare una specie di zona cuscinetto al confine tra i due paesi. Con lo scopo nemmeno tanto nascosto di risistemare lì almeno due dei tre milioni e mezzo di rifugiati curdi presenti entro i confini turchi, in un momento in cui Ankara soffre una crisi economica importante. Persino alcuni esponenti del Partito repubblicano e collaboratori di Trump avevano accusato il presidente di “tradimento” nei confronti dei curdi siriani, che sono stati finora un attore importante e affidabile nella guerra contro l’Isis.

Se Esper ha specificato di “non appoggiare un’operazione nel nord della Siria” da parte della Turchia, Trump è andato anche oltre. Scrivendo un tweet persino più sbracato del solito, ha sostenuto infatti che se la Turchia dovesse fare qualcosa ritenuto “oltre i limiti”, lui stesso – dall’alto della sua “grande e ineguagliabile saggezza” – ordinerà misure per distruggere l’economia turca, dicendo anche di averlo già fatto in passato. Non è tuttavia chiaro a quali misure si riferisse Trump, o anche soltanto se fosse serio o ironico. A detta di molti, Trump si è fatto influenzare dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, col quale domenica ha avuto una conversazione telefonica.

La paura è che questa volta la sortita del presidente possa avere molte conseguenze potenzialmente disastrose, sia per la reputazione degli Stati Uniti agli occhi dei propri alleati, sia per una possibile recrudescenza delle attività jihadiste in Siria. Secondo il New York Times, nonostante il freno a mano tirato dal Dipartimento della Difesa, ora sarà complicato per gli Stati Uniti opporsi a una eventuale offensiva militare della Turchia in Siria – tanto più che la Turchia è un membro della Nato e un alleato chiave degli statunitensi, che così avranno margini di collaborazione con i curdi sempre più ristretti.

I precedenti

L’insofferenza di Trump per le “stupide guerre” in Medioriente non è nuova. Già nel dicembre 2018 la Casa Bianca aveva annunciato il ritiro dei soldati statunitensi dalla Siria, sostenendo che il terrorismo jihadista fosse stato sconfitto e che quindi la presenza militare fosse ingiustificata. Anche in quel caso, i consiglieri dell’amministrazione avevano dovuto metterci una pezza: l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, aveva ammesso che l’Isis non era stato ancora debellato, e che prima bisognava verificare alcune condizioni per il ritiro, e la priorità degli Stati Uniti era proteggere i curdi siriani da un’eventuale offensiva militare turca nel nordest della Siria. Quattro anni fa, prima ancora che Trump diventasse presidente, Bolton (considerato un falco dell’amministrazione) aveva suggerito sul Nyt la creazione di uno “stato cuscinetto” sunnita tra Iraq e Siria, che potesse campare di petrolio tenendo a bada sia l’Isis che i curdi, in modo da tranquillizzare tutti gli altri paesi limitrofi.

Alcuni membri del governo Trump sostengono (in forma anonima) che la decisione di Trump li lascia increduli e confusi, e che non gli era stata comunicata prima che fosse resa pubblica. Qualunque sia il retroscena, sembra ormai chiaro che i curdi siriani dovranno contare sempre più sulle proprie forze. All’Occidente forse converrebbe tenersi stretti gli alleati nel Rojava per proseguire la guerra contro l’Isis. Ma al momento sta scegliendo di sacrificarli per tenere buono il leader che controlla una porta d’accesso cruciale per l’Europa e il Medio Oriente, ignorando persino le opinioni dei propri esperti sulla strategia da seguire.

Un bambino curdo nel Rojava (foto: BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

I rischi di lasciare il Rojava al suo destino

Secondo Brett McGurk, ex inviato speciale statunitense presso la coalizione internazionale anti Isis, Donald Trump assume decisioni impulsive senza averne la consapevolezza. Fa il bullo, insomma e poi “lascia gli alleati esposti quando gli avversari capiscono che sta bluffando”, nonché “dimostra una completa mancanza di conoscenza di quanto accade sul campo”. L’operazione “Ramoscello d’ulivo” del 2018 compiuta dalla Turchia in territorio siriano è un precedente importante per capire cosa potrebbe accadere in futuro: centinaia di civili uccisi, 150mila curdi siriani spodestati dalla zona di Afrin e costretti a trasferirsi altrove in Siria. Una riduzione del sostegno americano nel Rojava, osserva McGurk, rischia di spaccare le Forze democratiche siriane, una brigata internazionale di milizie curde, arabe e assiro-siriache, che potrebbero scegliere di andare ognuna per conto proprio: chi cercando alleati nel regime iraniano, chi collaborando con le forze turche, chi proprio con lo Stato islamico.

La posizione di Trump ha in fondo il merito è in fondo più chiara di quella del suo predecessore. Trump ritiene che gli Stati Uniti debbano realizzare la loro strategia di uscita delegando la stabilità dell’ordine regionale a tre paesi di riferimento: Israele, Arabia Saudita e Turchia.
Quest’ultima sembra anche un valido contraltare alla presenza della Russia nel resto della Siria, dopo che il governo di Bashar al-Assad ha riconquistato il controllo di gran parte del paese a ovest dell’Eufrate nell’autunno del 2017.

I grandi vincitori, fin qui

C’è la Turchia, ovviamente, che ha sempre visto i curdi siriani come una minaccia terrorista per via dei loro legami con il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) che è a sua volta visto dagli Stati Uniti come un gruppo eversivo. Ankara potrà così scongiurare il rischio che l’esempio dei curdi in Siria possa riaccendere la miccia dell’indipendentismo curdo in casa propria, e Erdogan potrà provare a ridefinire la questione sicurezza nazionale per almeno una generazione.

In secondo luogo c’è l’Isis, che aveva nelle forze di resistenza del Rojava una grossa spina del fianco, mentre tuttora conserva un certo consenso nelle province di Raqqa e Deir al-Zor tra la popolazione araba. Il terzo vincitore principale è infine Assad, che potrà approfittare dell’indebolimento dei curdi per costringerli a cedere qualsiasi pretesa di autonomia regionale in cambio di una qualche protezione dalla Turchia.

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