Alien rappresenta ancora oggi qualcosa di unico e imponente nell’immaginario collettivo, tanto che si può anche ragionare su quanto la sua eredità sia qualcosa di ormai quasi scomodo, ingombrante, pericoloso per chi le si avvicina. Sono passati 45 anni dal giorno in cui finimmo a bordo della Nostromo, assieme al Tenente Ripley, assediati da uno dei mostri più geniali e paurosi che la mente umana potesse concepire. Da quel 1979 questo film non smette di stupirci, di meravigliarci, di smuovere qualcosa di inesplicabile e universale dentro le nostre menti.
Un’opera innovativa dalla genesi a dir poco irripetibile
Chissà se mentre Alien prendeva forma, in qualche isolato istante, Ridley Scott, Dan O’Bannon e gli altri si immaginavano che dopo 45 anni, la Nostromo ed il suo equipaggio sarebbero stati ancora dentro i nostri sogni, avrebbero ancora incatenato una fetta di cinema ad un’eredità semplicemente unica. Alien usciva il 25 maggio 1979, ricevendo per la verità pareri alquanto discordi da parte della critica, che spesso lo considerò alla stregua di un b-movie, se non proprio di un banalissimo thriller spaziale per spaventare il pubblico più impreparato. Quel pubblico però premiò Alien con un incasso da capogiro, siglando l’inizio di una saga che, ancora oggi, si cerca in tutti i modi di tenere in vita, a dispetto del tempo che passa, dell’impossibilità di raggiungere la totale perfezione che questo survival horror sci-fi offrì al mondo su quel finire di anni ’70. Dietro l’atmosfera semplicemente magnetica per terrore e suggestione, gli effetti speciali e la colonna sonora che fecero la storia però, Alien era molto di più, uno scrigno dentro cui ci si muoveva tra passato e futuro, realtà e fantasia, che si incrociavano continuamente. A dirla tutta, non sbaglia chi ancora oggi reputa il film di Scott il primo, vero, film di fantascienza verosimile modernamente inteso, il primo in cui ci si concentri nel parlarci dell’uomo in quanto essere immutabile, a dispetto di tecnologia, pianeti e xenomorfi. Perché pur nell’incredibile eccezionalità e nella totale distanza dal reale che quel film ci proponeva, si avverte ancora oggi quanto ogni elemento sia plausibile, quanto ogni personaggio ci sia vicino, quanto quel mostro rappresenti qualcosa di familiare, di potente. Alien porta la firma di Ridley Scott, all’epoca reduce dal sontuoso inizio con I Duellanti, ma la paternità semantica, anche visiva dell’opera, è indubbiamente legata sia ad Dan O’Bannon, sia a a Walter Hill e David Giler, che doneranno a Scott una sceneggiatura a dir poco dirompente.
La Fantascienza subito dopo il secondo conflitto mondiale, complice la Guerra Fredda e la corsa allo Spazio, si era ritagliata un ruolo che, tra alti e bassi, aveva saputo esprimersi in molteplici forme. L’apice era stato sicuramente 2001: Odissea nello Spazio, ma in quell’America degli anni ‘70, appena uscita dal Vietnam e preda di forti divisioni politiche e sociali, il genere era parso a lungo arenato. Lo stesso O’Bannon aveva scritto assieme a John Carpenter e Ron Cobb, “Dark Star”, racconto parodistico su ciò che Kubrick aveva offerto al mondo, ma fu lì che per la prima volta pensò a qualcosa di simile ma dal tono horror. Neanche il tempo di solidificare l’idea, ed ecco che O’Bannon finisce in Dune di Jodorowsky, il più grande film non realizzato di sempre. Ne supervisiona gli effetti speciali, ma soprattutto entra in contatto con artisti del calibro di Moebius, Giger, Foss, da ognuno di loro recupera e assorbe qualcosa, che assieme a Shushett finirà in un’idea che nel tempo cambia titolo, paternità, ma non finalità: quella di guidarci dentro un orrore profondamente evocativo, viscerale, nuovo nel modo in cui sa comunicarci la paura per quell’immensità sopra le nostre teste, dentro cui il peggiore dei nostri incubi vive innanzitutto dentro la nostra mente. Si discute ancora oggi molto su quanto Alien debba in realtà ad una marea di altri titoli, che con alterne fortune avevano già affrontato il tema di un terrore tra le stelle. Le similitudini e connessioni con La Cosa di un altro mondo di Hawks (che Carpenter avrebbe riportato in vita di lì poco), Terrore nello Spazio del nostro Bava, Il Pianeta Proibito di Wilcox, nonché “Crociera nell’Infinito” di Vogt, che poco gradì tale somiglianza. Ma non vi è dubbio che Alien rappresenti anche l’apice di un momento creativo e produttivo di rinnovamento, che porta altri due nomi in dote: Steven Spielberg e George Lucas.
Tra mitologia e metafore socio-politiche a dir poco geniali
Alien esce quattro anni dopo Lo Squalo e due dopo Guerre Stellari. Di base è un mix tra entrambi, lo stesso O’Bannon ai produttori presentò il film come molto simile al capolavoro di Spielberg: la storia di un gruppo di individui chiamati a combattere un mostro che appare invincibile. Nello stesso concept dello xenomorfo, del fagehugger, del chestbuster, la fisionomia che il nostro Carlo Rambaldi gli dona, connessa alle idee di Giger e al “Necronon IV”, diventò la porta verso un nuovo incubo, connesso ad una sessualità violenta, mostruosa, eppure molto familiare. Ma, ed è ancora questo uno degli elementi più affascinanti di Alien, la paura di una penetrazione sadica e violenta, inattesa, si connette ad una visione di vendetta femminile arcaica, antica, in cui il concetto di mitologia si incrocia con la metafora socio-politica. C’è un documentario che ha spiegato tutto questo in modo impareggiabile: Memory: The Origins of Alien di Alexandre O. Phillippe, uscito nel 2019 e che chiunque ami la saga di Alien dovrebbe recuperare. La Ripley di Sigourney Weaver si muove in un microcosmo che Walter Hill e Giler resero metafora della società americana di fine anni ‘70, condizionata da discriminazione razziale e di genere. Il Capitano Dallas di Tom Skerritt viene spinto in più di un’occasione dall’astuto droide Ash di Ian Holm, a rigettare idee e consigli di Ripley, non solo in qualità di suo superiore, ma anche perché un “maschio”, che in quanto tale non può e non deve cedere il potere decisionale ad una donna. L’equipaggio in realtà non sarà mai unito, coeso e collaborativo di fronte allo xenomorfo come la situazione richiederebbe, il che poi è esattamente ciò che l’America lavoratrice era in quegli anni, distrutta da un mostro chiamato crisi economica ma incapace di combatterlo.
Alien ci offrì con Ripley la più grande eroina cinematografica di sempre, simbolo stesso di quella seconda ondata femminista, che di lì a poco sarebbe andata in profonda crisi. Ripley, come lo xenomorfo, ci ha sempre accompagnato in tutti questi anni, con il suo portare avanti una lotta senza fine contro un ambiente machista, classista e opprimente creato dall’uomo, in cui lo xenomorfo è apparso sovente neppure la nemesi peggiore. Alien, anche grazie a lei, ebbe un impatto sul pubblico a dir poco dirompente, in virtù anche di scene semplicemente geniali per concezione e realizzazione. Ancora oggi la morte di Kane, ucciso dal chestbuster, è uno dei momenti più rivoluzionari della storia del cinema, quello in cui la fantascienza si connette all’horror nella sua concezione più alta, più innovativa ed iconica. La lotta finale tra Ripley e il mostro, un mix ineguagliato di terrore, simbolismo sessuale e tensione che ancora oggi lascia a bocca aperta. Alien dette al concetto di ignoto, di non visto ed immaginato, una potenza e una stratificazione superiori anche a ciò che Lo Squalo di Spielberg era stato pochi anni prima, ed in modo eccezionale. La sua complessità semantica risplendeva nelle stesse scenografie, gli effetti speciali, i costumi, non più mero elemento visivo, ma un vero e proprio protagonista aggiunto, fattore determinante nello sviluppo dell’identità del film. Alien avrebbe avuto un seguito diretto da James Cameron più action ma comunque eccezionale, prima della deriva citazionistica e poco ispirata, di spin-off commerciali. Ad oggi sono nel videoludico abbiamo avuto un qualcosa di veramente all’altezza di questo incubo nello spazio profondo, che ha influenzato la fantascienza in modo tanto radicale, quanto inevitabilmente a volte ingombrante. Eppure, dopo 45 anni, ci basta ascoltare le note di Jerry Goldsmith, perderci negli occhi pieni di terrore dell’equipaggio della Nostromo, per tornare a credere che nello Spazio, urlare sia totalmente inutile.