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martedì, Ott 15

Allerta meteo: come sempre tutto sulle spalle delle famiglie


La Liguria minacciata da una nuova ondata di maltempo. La chiusura delle scuole pone i nuclei famigliari davanti al solito dramma: a chi affidare se di giorno mamma e papà lavorano?

Genova, oggi, è di nuovo una città spaccata in due: il Ponente, da Cornigliano a Voltri, è stato colpito da una fortissima ondata di maltempo che ha obbligato i municipi a emanare un’ordinanza di chiusura delle scuole. Dal centro a levante, invece, la città non ha subìto conseguenze.
Le lamentele, le critiche e le accuse, però, si sono immediatamente diffuse su tutto il territorio cittadino obbligato, da sempre ma in particolare da dieci anni a questa parte, a fare i conti con continui stati di allerta e soprattutto con le alluvioni, che nel 2010, nel 2011 e nel 2014 hanno colpito duramente la città di Genova.
Dopo il 2011 – anno nel quale l’esondazione del torrente Fereggiano causò la tragica morte di sei persone, tra le quali due bambine e la loro mamma che le era andate a prendere a scuola  – la regolamentazione dell’allerta, infatti, è stata profondamente modificata e gli abitanti della città e della provincia devono fare i conti ogni anno con una decina di giornate di allerta arancione o rossa.

A volte, come sta succedendo in queste ore, il pericolo è percepito non soltanto dalle istituzioni, ma dagli stessi abitanti, che comprendono anche solo avvicinandosi alla finestra le possibili conseguenze di un’uscita di casa al momento sbagliato per accompagnare i figli a scuola, o per andarli a prendere.
Altre volte, a causa delle condizioni climatiche che possono mutare rapidamente, i genitori si trovano con la fatica della gestione di un giorno di chiusura delle scuole mentre fuori splende un pallido sole.
È inevitabile quindi che una situazione come questa faccia esplodere la polemica ad ogni allerta in meno o in più: i genitori si dividono tra quelli per i quali gli stati di allerta sono troppo pochi o mal comunicati, e quelli per i quali ogni chiusura della scuola è un’interruzione di troppo.

Ma dietro a queste rappresentazioni, è facile intuire che lo scontro si delinea in realtà tra chi ha un posto di lavoro garantito, e chi non ce l’ha. Ci sono famiglie con nonni pensionati ancora giovani, con lavori statali o parastatali, con babysitter sempre presenti o ragazze alla pari: per loro la chiusura delle scuole è un evento tutto sommato gestibile.
Altri nuclei familiari, invece, vivono in situazione monoreddito grazie a contratti precari. Sono le famiglie in cui la mamma fa la badante, o il papà porta a casa uno stipendio grazie alla somma di due o tre lavori.

Per loro, la chiusura delle scuole (quella improvvisa, per allerta, ma anche quella prevista, per le vacanze di natale o per quelle estive) è una tragedia.
C’è poi la via di mezzo, quella di cui non si parla mai: quella composta dalle famiglie del ceto medio impegnate in “nuovi” lavori: partite Iva, soprattutto, che vivono con l’incubo dei tempi delle consegne, magari in appalto a grosse fondazioni nazionali, o aziende internazionali alle quali non si può chiedere un giorno di proroga a causa delle forti piogge.

L’insieme di tutte queste famiglie, ognuna diversa da loro, compone la città di Genova, così come le città di tutta Italia.
Sono questi i genitori che scontano la pena di crescere dei figli in una delle tante città italiane che hanno costruito le basi del proprio boom economico anche sull’abusivismo edilizio.
Se i torrenti non sanno più dove scorrere ed esondano all’improvviso, se i monti franano, se i tombini non riescono a far defluire le acque, la colpa non è dei genitori che hanno fatto dei figli dal 2000 in poi.

Ciononostante, il Pubblico non si occupa delle conseguenze delle chiusure delle scuole per allerta, e poco si preoccupa anche del tempo extrascolastico: i pomeriggi, l’estate, le vacanze invernali.
Ed è così che le famiglie si trovano a fare i conti, come sempre, soltanto sulle loro forze, bruciando giorni di ferie, lavorando di notte per recuperare quello che non si è fatto di giorno, investendo 50 o 100 euro per pagare una babysitter che guadagna all’ora magari più di quello che riescono a portare a casa loro.
Continuare a dividere il mondo tra i “bravi genitori” che capiscono il rischio e tengono a casa i figli senza battere ciglio, e i “cattivi genitori” sempre pronti a delegare e a lamentarsi è una narrazione tossica che fa male a tutti.

Per non alimentare la guerra tra poveri e, soprattutto, per far sì che sia compresa da tutti la necessità di evitare di far correre dei rischi ai bambini (e agli adulti) sono i Comuni, le Regioni e lo Stato che dovrebbero intervenire.
La proposta più semplice potrebbe essere quella di un “voucher babysitter” che rimborsi ai genitori il costo di lasciare i bambini per una giornata con qualcuno che pensi a loro: una proposta che potrebbe poi essere allargata ad un sistema diffuso di welfare familiare che comprenda la copertura dei costi di centri estivi e centri invernali.

Chi dice che i bambini devono “stare a casa con mamma e papà” e che quindi non è né sano né educativo prevedere e sostenere progetti educativi extrascuola vive con le fette di prosciutto sugli occhi.
È il sistema-lavoro attuale che impedisce ai genitori di avere il tempo per i propri figli, non la cattiveria del singolo che non vuole occuparsi dei bambini.
Continuare a non rispondere ai bisogni, significa lasciare le famiglie alle prese non solo con insormontabili difficoltà organizzative, ma anche con un persistente senso di colpa.
Potersi permettere un giorno a casa insieme ai figli perché fuori diluvia non ha a che fare solo con la volontà: è soprattutto una questione di possibilità, e di fortuna.

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