American Pie quando uscì non doveva essere nulla di più di uno dei tanti titoli demenziali per il pubblico under 25, genere che all’epoca conosceva una proliferazione di titoli non sempre eccezionali, e dentro cui avrebbe potuto confondersi. Invece il film di Paul Weitz e Adam Herz diventò un fenomeno del botteghino, un cult in grado di depositarsi nella memoria collettiva, di ridefinire un genere e parlarci dell’età giovanile unendo risate, malinconia e follia in modo unico.
American Pie arrivò in un momento particolare, alla fine degli anni ‘90, quando la comicità si era trasformata, passando dal genere parodistico alla demenzialità più folle e spesso anche pecoreccia, un’evoluzione di cui il simbolo era stato Mel Brooks. Ma più ancora, il decennio degli anni ’80 era però stato dominato dalla dimensione teen, che tra piccolo e grande schermo aveva avuto in dote una narrazione trasversale di grande varietà e fantasia. Da Breakfast Club a Karate Kid, da l’Attimo Fuggente a St. Elmo’s Fire, gli adolescenti erano al centro di film in cui si parlava apertamente delle difficoltà di crescere, integrarsi, superare i primi amori o le proprie paure. Tuttavia spesso tale visione era romanticizzata o edulcorata. Negli anni ‘90 invece si spostò completamente l’asse, recuperando lo spirito anarchico, dissacrante e clownesco di pietre miliari come Porky’s e Bachelor Party, dove proprio una certa narrazione cinematografica della gioventù era stata parodiata, distrutta e sbeffeggiata. Con essa anche le istituzioni, il concetto di “normalità” e ogni parvenza di Politically Correct.
Tutti Pazzi per Mary, Scemo & Più Scemo, The Mask, Ace Ventura (Jim Carrey per essere sintetici) avevano portato un tasso di irriverenza, follia e distruzione del puritanesimo piccolo borghese così felicemente irrefrenabile, che American Pie non poteva che essere come in effetti fu. Fu un film dominato dal punto di vista dei suoi protagonisti, ed era un punto di vista in cui il sesso, in tutte le sue forme, evoluzioni, evocazioni, era al centro del villaggio, senza alcun filtro e mediazione, senza alcun ostacolo. Per questo, soprattutto per questo, il primo capitolo di quella saga seppe colpire così tanto nel segno: perché era un film fatto per i ragazzi, quelli veri, non quelli immaginati dagli adulti e mostrati spesso attraverso filtri a dir poco irrealistici. Adam Herz aveva studiato al East Grand Rapids High School del Michigan, la compagnia strampalata dei protagonisti, gran parte delle gag più assurde e pecorecce, dei sogni, modi di dire ed di fare, li recuperò dai suoi anni e li inserì in un iter narrativo perfetto.
American Pie verteva su un gruppo di ragazzi all’ultimo anno di Liceo, ognuno con le sue caratteristiche, peculiarità e soprattutto la sua personalità. Jim (Jason Biggs), Oz (Chris Klein), Kevin (Thomas Ian Nicholas) e Finch (Eddie Kaye Thomas) sognano di perdere la verginità entro fine anno, magari avvalendosi dell’aiuto dell’amico festaiolo Stilfer (Sean William Scott). Dubbi, speranze, attese e curiosità legate al sesso sono anche al centro della vita delle loro coetanee Michelle (Alyson Hannigan), Vicky (Tara Reid), Jessica (Natasha Lyonne) e Heater (Mena Suvari), ma è comunque Jim il protagonista. Imbranato, timido, poco atletico e nerd incallito, con un rapporto a dir poco complicato con il padre (Eugene Levy) e la madre (Molly Cheek) e il sesso, rimane uno degli adolescenti più iconici mai creati sul grande schermo. Da questi presupposti, American Pie partiva per guidarci verso una serie di disastri, dialoghi, avventure e scoperte in cui il realismo si legava anche ai momenti più assurdi.
Il famoso “Ballo di Fine Anno”, diventa una sorta di resa dei conti trasversale e senza esclusione di colpi. American Pie era un attacco frontale a tutti quei film che avevano cercato di parlarci dell’adolescenza in modo retorico e aulico, ma era anche antitetico all’eredità del “Brat Pack”. Nulla viene risparmiato, in un’atmosfera in cui emerge anche l’eredità de I Simpsons, della comicità slapstick, di quella rinascita culturale del punk e delle negazione dell’eccezionalismo americano, simboleggiata da una colonna sonora firmata da Sum 41, Blink-182, Sugar Ray, Third Eye Blind, con buona pace del pop e del rock. Eravamo del resto nel 1999, nel pieno di quel decennio che, come ricorda sempre Mark McGrath, è stato l’ultimo che valesse veramente la pena vivere. In questo film vi è il trionfo della MTV Generation, della pop culture all’alba del XXI secolo. Dentro c’è tutto il microcosmo, e ciò che era interagire tra ragazzi all’epoca, c’è il mondo che comincia a muoversi più velocemente ma nessuno se n’è accorto. E quindi ecco le prime connessioni Internet e webcam, i primi cellulari, ma il mondo digitale è distante, l’interazione dal vivo è ciò che conta.
Dietro le risate, la malinconia di un film di formazione eccellente
Tuttavia in American Pie il sesso come fantasia si nutre di persone reali. Abbiamo la compagna di classe o del coro, la studentessa straniera Nadia che manda in corto Jim di fronte a mezza scuola via internet, e poi c’è lei, Jennifer Coolidge, la Madre di Stilfer, la prima MILF della storia. Perché si, American Pie ha avuto un impatto così incredibile, profondo in due generazioni di spettatori, che ha cambiato anche il linguaggio connesso al sesso e alla fantasie sessuali. Dentro questo film c’è tutto ciò che oggi bene o male è scomparso a causa di internet: il mistero e la fascinazione verso qualcosa di cui in realtà si sa poco, si immagina tanto e sotto sotto si ha anche un po’ paura. American pie incasso 240 milioni di dollari in tutto il mondo, la critica si trovo alquanto spaesata, perché al netto della volgarità, di quella torta di mele massacrata da Jim, di mille altre battutacce e situazioni pecorecce, era facile intravedere la sferzante critica all’ipocrisia della classe media, traboccante di peccati dietro l’apparenza rispettabile. Il film in realtà era molto più profondo e malinconico di quanto sembrasse, nel parlarci delle fasi dell’età e del rapporto tra sessi.
Mentre ci si sbellicava dalle risate, con Finch vittima di un lassativo, omaggi a Il Laureato, perdurava la sensazione anche di un qualcosa di irrisolto e di perduto. Per quei ragazzi, la sera di ballo di fine anno è anche la fine della spensieratezza, della gioventù nel senso più puro, di quel trovarsi tutti i giorni alla caffetteria o altrove per chiedersi che sarà del loro domani, come trovare una ragazza. La realtà si è presa la loro fantasia, hanno cominciato all’improvviso quel processo verso l’età adulta, che porterà molto meno divertimento, leggerezza, in cui ogni scelta avrà un peso maggiore. Erano così impegnati a cercare di diventare “grandi” che alla fine grandi lo sono diventati. A parte Oz ed Heather, nessuno di loro uscirà da quell’evento con l’anima gemella, Kevin al contrario perderà Vicky. Gli evitabilissimi seguiti, ad eccezione dell’intelligent_e American Reunion_ del 2012, avrebbero fatto un buco nell’acqua, con solo American Pie 2 in grado almeno di divertire. Tuttavia avrebbero accompagnato verso la maturità lo stesso pubblico di riferimento, mentre la società, il mondo, la stessa concezione del rapporto tra i sessi e il sesso cambiavano completamente di fronte ai nostri occhi.
American Pie rimane un prodotto assolutamente anni ‘90. La stessa composizione dei suoi protagonisti è infatti irrimediabilmente “straigth”. Sono tutti bianchi, tutti etero, non c’è traccia di minoranze e tantomeno di qualcuno che appartenga alla comunità LGBTQ+, qualcosa che il remake, American Pie Presents: Girls’ Rules, ha cercato di modificare. Il risultato è stato tremendo ed il motivo in realtà è abbastanza semplice: American Pie appartiene ad un diverso periodo storico e narrativo, in cui l’umorismo era senza filtri e senza alcun limite, in cui ogni presunta ipersensibilità e ogni supposta necessità di calcolare qualcosa di diverso dalla volontà di divertire e dell’autore, non era semplicemente considerata. Nel suo aggrapparsi a stereotipi che poi distrugge, nel prendere i suoi personaggi e strapazzarli senza alcun ritegno, il film di Paul Weitz e Chris Weitz ha sicuramente fatto la storia del genere teen comedy, di cui rappresenta per molti versi l’ultimo vero acuto, folle, anarchico e genuino, prima del tedioso lavoro a tavolino delle produzioni moderne.
La realtà è che senza American Pie era un film di formazione sotto mentite spoglie e ci ha permesso di parlare del sesso in modo libero, caotico, ormonale e spregiudicato. Per quanto possa sembrare assurdo, senza questo film non avremmo avuto prodotti come Euphoria, Skam, Sex Education, Tredici, che hanno cercato però quasi sempre di inseguire una drammaticità e una visione conflittuale e fluida del mondo teen. Il che ci porta anche a chiederci se forse essere adolescente una volta fosse più semplice e la risposta è sicuramente sì. American Pie di quanto meno traumatico, stressante, quanto più divertente e libero fosse il mondo degli anni 90, senza app di dating, social e compagnia, è ancora oggi una dimostrazione narrativa netta e inequivocabile. Dopo questo film, il cinema per i teen sarebbe diventato di plastica, le sole eccezioni sarebbero state Mean Girls, Superbad, Napoleaon Dynamite e Juno, tutte pero prive della capacità di diventare elemento trainante della pop culture, di definire una generazione e trasformare il genere. American Pie da questo punto di vista, rimane assolutamente inimitabile, un film che nel suo piccolo è totem di una generazione e di quel periodo, oggi da molti rimpianto.