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mercoledì, Ott 30

Anche la scienza ha bisogno dell’anonimato online


Costringere i social network a chiedere i documenti potrebbe mettere a rischio l’integrità della ricerca scientifica e del confronto su internet

Il fischietto simbolo del whistleblower, ovvero colui che rivela un segreto di cui il pubblico dovrebbe essere a conoscenza (Wikimedia Commons)

“Male non fare, paura non avere”. Per Luigi Marattin, promotore del nuovo scellerato disegno di legge di Italia Viva che vorrebbe legare a ogni account social un documento di identità (proposta neanche nuova: vi ricordate il ddl Carlucci?) deve essere molto semplice. Se sei un bravo cittadino online, che problema c’è a dare un documento? Sembra che l’anonimato in rete sia una esclusiva di troll, bot e odiatori. Come se non esistessero persone che hanno invece bisogno davvero di proteggere la propria identità online.

Un esempio di come l’anonimato in rete sia importante viene nientemeno che dalla ricerca scientifica. Precisamente da PubPeer, una piattaforma online nel 2012 da tre biologi, Brandon Stell, George Smith e Richard Smith. L’idea iniziale era quella di discutere articoli scientifici, una versione collettiva dei journal club che molti laboratori tengono regolarmente per discutere le ultime novità del loro campo. All’inizio i commenti non erano anonimi (ironicamente, i nomi dei fondatori invece non erano pubblici). Ed era un problema.

In un mondo ideale lo scambio franco e sincero dovrebbe essere il pane della scienza. Ma nel mondo reale, come sa chiunque abbia fatto ricerca scientifica specie in campo biomedico, molti giovani ricercatori non osano discutere pubblicamente con il proprio nome articoli scientifici del loro campo. Temono ritorsioni. Un professore senior che vede il proprio lavoro scientifico criticato pubblicamente da un ricercatore a inizio carriera ha molti modi per vendicarsi, in futuro. Può valutarne negativamente gli articoli in fase di peer review, può far parte di commissioni che decidono di assegnare fondi, può bloccare assunzioni. E anche chi non è direttamente coinvolto può preferire non aver a che fare con un potenziale rompiscatole. È il motivo per cui, durante la peer review che valuta se un articolo scientifico può essere pubblicato, i nomi dei revisori non appaiono. Nel 2013 PubPeer, dopo molte richieste, decide dunque di ammettere i commenti anonimi.

Indagini sotto coperta

A quel punto PubPeer decolla in una direzione inattesa. Da semplice forum di discussione diventa la piattaforma di riferimento per denunciare frodi scientifiche. Grazie a Pubpeer intere “ricerche”, inventate di sana pianta usando un po’ di Photoshop e faccia tosta, vengono finalmente denunciate pubblicamente da whistleblowers anonimi che analizzano gli articoli, i dati, e trovano prove di manipolazioni. I commenti anonimi su PubPeer hanno costretto vari ricercatori ad ammettere errori, a correggere o ritirare i propri articoli, come nel caso di Haruko Obokata. Uno dei casi più eclatanti è stato quello del biologo francese Olivier Voinnet, il cui lavoro è stato passato al setaccio su PubPeer scoprendo numerosi casi di manipolazione scorretta di immagini. Voinnet ha dovuto ritirare numerosi articoli, è stato sospeso dal Centre national de la récherche scientifique francese e bandito dal ricevere fondi di ricerca svizzeri.

Quanto sia importante che PubPeer non sappia nulla di chi commenta è saltato fuori quando nel 2014 un professore (Fazlul Sarkar, alla Wayne State University in Michigan) si è arrabbiato e ha denunciato PubPeer, cercando di costringerli a rivelare l’identità degli anonimi commentatori che avevano trovato seri indizi di manipolazione fraudolenta nei suoi lavori. Se per scrivere su PubPeer servissero documenti sarebbe stato possibile, almeno in teoria, che qualche giudice potesse costringere il sito a rivelare i nomi, rovinando probabilmente la carriera dei whistleblowers.

Invece a Sarkar è andata male. La Corte d’Appello del Michigan ha dichiarato che i commentatori hanno il diritto di restare anonimi, mentre in seguito Sarkar ha dovuto ritirare una quarantina di articoli. PubPeer adesso consiglia ai propri utenti di usare tecnologie di navigazione anonima come Tor per evitare che la propria identità possa essere rivelata ai server di PubPeerneanche attraverso gli indirizzi Ip, in caso la prossima causa non vada così bene.

È ovvio che questo approccio ha i suoi detrattori. C’è il rischio che si creino squadre di vigilantes online che vedono dati falsi dove non ce ne sono. O che l’anonimato venga usato per gettare fango sui concorrenti, come ha raccontato il giornalista Leonid Schenider. PubPeer impone che i commenti anonimi si limitino a discutere dati di fatto e non opinioni o attacchi ad hominem, ma secondo alcuni non basta. Michael Blatt, editor della rivista scientifica Plant Physiology, ha criticato pesantemente PubPeer, argomentando che l’anonimato favorisce le critiche aggressive e non la discussione scientifica, e che spesso i commenti si focalizzano su errori privi di importanza, umiliando pubblicamente gli autori della ricerca senza nessun vero guadagno per la comunità scientifica, mentre i commentatori non devono prendersi alcuna responsabilità.

Hilda Bastian, epidemiologa e science writer, ritiene anche che i commenti anonimi aggressivi possano creare una cultura repellente per le minoranze e per chi non è a suo agio con questo atteggiamento un po’ ‘macho’. In una discussione su PubPeer le hanno risposto però che invece l’anonimato può essere di aiuto per ricercatori appartenenti a minoranze discriminate: nascondendo la loro identità, possono venire ascoltati alla pari con gli altri, senza essere giudicati in base ai pregiudizi consci o inconsci dei colleghi – in generale ci sono numerosissime categorie che avrebbero problemi senza la possibilità dell’anonimato. Hilda Bastian argomenta anche che l’anonimato può nascondere conflitti di interesse, che invece è bene siano palesi in una discussione.

Le alternative

Nessuno nega ci siano tipi di discussione in cui è bene che si sappia chi sta parlando. Inoltre certo la policy di PubPeer, che restringe il contenuto dei commenti a discutere fatti e non a gettare odio, aiuta a mantenere gli svantaggi dell’anonimato entro i limiti. Ma i tentativi di creare sistemi alternativi, con nomi visibili a tutti, come Pubmed Commons, sono falliti, poco o nulla utilizzati e infine chiusi, mentre PubPeer continua ad attirare più di mille commenti al mese. I risultati per la comunità scientifica sono sotto gli occhi di tutti: è grazie ai commenti anonimi di PubPeer che sono state scovate e messe alla luce numerose truffe scientifiche, che altrimenti avrebbero confuso altri ricercatori e continuato a sprecare fondi pubblici.

Ci sono dati che suggeriscono come l’aver esposto in pubblico i “panni sporchi” abbia contribuito a correggere la letteratura scientifica – mentre invece non sembrano molti i casi in cui PubPeer sia stato seriamente abusato. Certo sarebbe bello avere una cultura scientifica dove i giovani ricercatori non debbano essere costretti all’omertà, ma finora sembra impossibile negare che l’anonimato online abbia contribuito a una ricerca un poco più onesta e rigorosa. In tutto il discorso sulla responsabilità di ciò che si dice e scrive è bene ricordare che i rapporti di potere non sono simmetrici.

C’è chi ha molto da perdere, anche e soprattutto se onesto, nel momento in cui è costretto a parlare con nome e cognome. E c’è chi ha molto da guadagnare nel potersi segnare il nome di chi l’ha messo in difficoltà. Basta vedere cosa è successo a Edward Snowden o Chelsea Manning quando la loro identità è stata rivelata. Per questo l’anonimato online, con tutti i problemi che si porta dietro, non è un errore: è un diritto necessario, che va difeso, per la scienza e per tutta la libera informazione.

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