Belem, Brasile – André Corrêa do Lago è alto, dinoccolato, un po’ curvo in avanti. Sguardo a metà tra lo stanco e il divertito. Quello di un viveur, di un gourmand, di un prestigiatore della parola. E che modi: roba da Oxford. 66 anni, una carriera che lo ha condotto (Madrid, Washington, Buenos Aires, Unione europea) fino a uno dei gradi più ambiti, quello di ambasciatore in Giappone e in India. Attualmente è viceministro per il Clima e l’Energia.
André Corrêa do Lago, quindi, è un diplomatico nato, a partire dal doppio cognome che, almeno in Italia, è quasi la normalità per i funzionari diplomatici. Lui, nobile, lo appare anche se si chiamasse Pinto, equivalente locale del nostro Rossi. Quando è arrivato a un incontro con le delegazioni indigene, la prima cosa che ha fatto è stata prodursi in un baciamano alla leader che che si sarebbe seduta al suo fianco. Dopo aver affrontato la manifestazione, sempre indigena e molto concitata, e, dopo averne ascoltato i canti, si lascia fotografare con un bambino in braccio. Nessuna apparenza di affettazione. Così, ci si nasce: di certo, lo stile non si impara a scuola.
André Corrêa do Lago, l’uomo della saudade brasiliana
Corrêa do Lago è la personificazione della saudade brasiliana. Felice, ma mai troppo. Sempre assorto come se pensasse a un altrove collocato in chissà quale dimensione.
Lo guardi un attimo prima che prenda il microfono, o che parli all’interlocutore di turno, e ti sembra un uomo stanco delle settimane – forse mesi – di attenzione mediatica. Ma quando comincia a parlare muta pelle ed è capace di indossare un sorriso bonario e sornione capace di rabbonire anche attaccabrighe alla Donald Trump. “Ma fai attenzione: è uno che può portare a casa il risultato, o tagliarti la gola, indifferentemente”, ci suggerisce una negoziatrice che si occupa di just transition in una conversazione informale.
L’arte della dissimulazione fa ormai parte del dna di questo funzionario di carriera che era presente alla Conferenza di Rio del 1992, c’era quando è stato adottato il protocollo di Kyoto, non è mancato nemmeno a Parigi: insomma, abbiamo di fronte il meglio della storia della diplomazia climatica. “È l’emblema di ciò che ti insegnano prima di andare all’estero a rappresentare gli interessi nazionali”, ci dice un funzionario italiano, impassibile nel suo completo blu nonostante il caldo infernale che si respira vicino al padiglione tricolore. Neanche una goccia di sudore, non un segno di stanchezza sul viso. Stando a quanto racconta, “il controllo nasce dalla mente”. Noi la giacca l’abbiamo lasciata in sala stampa: il giornalismo è un’altra cosa.
Il presidente della Cop30 potrebbe riuscire dove gli altri hanno fallito
Corrêa do Lago gode di molta stima nelle delegazioni che si accapigliano sui testi negoziali. Il ruolo di presidente di una Cop – la gigantesca assemblea di condominio con oltre 190 paesi che litigano su tutto – è centrale: è lui, col suo magnetismo che può smussare gli angoli e guidare l’assise verso un compromesso. Con stili differenti, certo: due anni fa, a Dubai, Sultan Al Jaber chiuse la plenaria dopo pochi istanti, con quello che fu definito “un golpe”, pur di non dare la parola ai contrari. Quest’anno sembra difficile assistere a una scena del genere. L’obiettivo è arrivare a una decisione finale che metta un cappello ai lavori, e che da tempo non si vede alle riunioni annuali sul clima.



