Seleziona una pagina
giovedì, Set 09

Apriti, scienza! L’importanza di pubblicare su riviste open access



Da Wired.it :

Accedere alle ricerche più importanti è spesso costoso, il che ne limita la diffusione e l’impatto. Ma il 2021 è l’anno della svolta. Grazie a Plan S, una coalizione che da ora in poi finanzierà solo i progetti i cui risultati siano disponibili per tutti

Articolo estratto dal numero 96 di Wired

Era il 12 gennaio 2020 quando la Cina condivideva col mondo intero la sequenza di Sars-CoV-2, il virus che ha fatto da scintilla per la pandemia che tuttora viviamo. Siamo distanti poco più di un anno da quel giorno eppure, se guardiamo alla mole di scoperte sul patogeno e sulla malattia che scatena Covid-19, potrebbe quasi sembrare il condensato di svariati lustri di ricerca scientifica. Quella prima condivisione ha consentito ai ricercatori di ogni parte del globo di condurre immediatamente indagini sulle caratteristiche del virus, pur non avendolo fisicamente a disposizione nel proprio laboratorio, e ha dato a tutti i paesi la possibilità di sviluppare kit diagnostici in tempi record. In una manciata di mesi, gli scienziati sono riusciti a mettere a punto l’arma più potente contro la malattia: il vaccino.

Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, o almeno non altrettanto velocemente, senza una posizione di apertura. Non solo a proposito dei dati, ma anche delle pubblicazioni scientifiche, i cosiddetti paper: la stragrande maggioranza di quelli che riguardavano ricerche attinenti a Covid-19 è stata resa disponibile in un formato open access, cioè gratuitamente, a chiunque avesse bisogno di conoscerne i risultati. Un fatto, possiamo dirlo, più unico che raro, che ha consentito di generare da subito un’enorme base di conoscenza grazie alla quale ospedali, università, istituzioni e aziende hanno potuto lavorare in sinergia, pur trovandosi a grande distanza tra loro, e generare nuova conoscenza in tempi rapidissimi.

Appendendo – momentaneamente – al chiodo la vecchia scuola degli studi condotti in successione e muovendosi come un unico smisurato cervello interamente focalizzato sulla lotta contro il virus. Momentaneamente, dicevamo, perché di fatto è già ora di chiederci: fino a quanto funzionerà ancora così?

 

Binario veloce, binario lento

Con l’arrivo dei vaccini, che certo rappresentano una sorta di “tregua” dal punto di vista medico, sono già iniziate le pressioni verso il ritorno a un sistema di pubblicazioni chiuse, a pagamento. Ma quanto è lecito, ora che sappiamo quanto possiamo correre, decidere di convogliare la ricerca di nuovo sul “binario lento”?

Inoltre, pensare di rallentare solo perché iniziano a esserci soluzioni, significa guardare al problema da una prospettiva squisitamente biomedica: ce lo possiamo davvero permettere, a fronte del disastro sociale a cui stiamo assistendo?

C’è moltissima competenza, nel mondo delle scienze sociali e umanistiche, che può dare un contributo a superare questa grande crisi e sostenere (anche) le persone che lavorano nella sanità pubblica. Pensiamo, per esempio, alla ricerca sull’impatto della pandemia sulle relazioni sociali, sulla salute mentale, sulle condizioni lavorative, oppure alla comunicazione scientifica (incluso il dibattito sulle vaccinazioni). Non dovrebbe essere necessario specificarlo, ma si tratta di una conoscenza tanto importante quanto quella prettamente biologica. Eppure, nel caso di nuove restrizioni, potrebbe subire una brusca frenata.

Quale sarà considerata ricerca fondamentale per la pandemia e quale invece sarà reputata marginale? Che cosa conta come scienza? Dove verrà segnata la linea di demarcazione? Sarà proprio questo a dare il polso di quanto sia grande il potere di chi decide. E ancora una volta, persino in un momento come questo dove le verità alternative fioccano da ogni dove, la decisione non spetterà a chi la scienza la fa, a chi lavora nel mondo accademico, della ricerca o dell’innovazione industriale. A decidere se una pubblicazione scientifica sarà liberamente fruibile o meno sarà un pugno di grosse case editrici. E questo, sia chiaro, non avviene da oggi né soltanto con il coronavirus.

 

Per un pugno di paper

Sono almeno cent’anni che la tendenza dei contenuti scientifici è quella di crescere, moltiplicarsi coinvolgendo un numero maggiore di persone, nazioni, culture, diversificandosi in discipline sempre più specializzate. Oggi, la quantità di informazioni che devono essere trasmesse è diventata enorme e richiede infrastrutture complesse e costose. All’opposto, il sistema che convoglia e muove i fili del sapere è sempre più limitato, con disseminazione e comunicazione vincolate a chi queste infrastrutture le ha costruite, e cioè i grossi editori. Ma non è tutto. L’espansione del mondo scientifico ha portato con sé anche problemi intrinseci di valutazione: capire chi siano i bravi ricercatori, coloro ai quali spettano i fondi di ricerca, e quali siano le ricerche più promettenti, quelle su cui vale la pena di investire, richiede un sistema di misura efficace e immediato.

È cose che è nato quello che viene definito impact factor: un metro per giudicare i ricercatori sulla base di quante pubblicazioni producono e dove riescono a collocarle. Più alto è il prestigio delle riviste scientifiche su cui un ricercatore pubblica, più è alto il suo impact factor.

Tutto bene, se non fosse per un problema: le riviste che conferiscono un valore maggiore a un ricercatore e alla sua attività sono letteralmente “proprietà privata”, o meglio, sono in mano a case editrici commerciali, che dal sistema di pubblicazioni devono trarre profitto. E, in nome di questo profitto, chi vuole consultare i risultati di una ricerca deve acquistarli, facendosi carico di spese a volte anche molto consistenti.

 

Under pressure

Un ingranaggio così costituito finisce per escludere moltissime persone dal poter accedere ai risultati scientifici, a partire da una buona parte dei protagonisti stessi della ricerca: gli scienziati. Non tutte le istituzioni dove i ricercatori lavorano, infatti, possono permettersi di versare le somme necessarie accedere ai paper; uno scienziato dell’università di un paese in via di sviluppo rimane molto spesso – e poco democraticamente – escluso.

Se non bastasse, a rimanere tagliati fuori sono anche settori e professioni non direttamente coinvolti nel mondo della ricerca, ma che potrebbero lavorare meglio attingendo ai suoi frutti, come per esempio l’industria, l’educazione, l’avvocatura, i medici di ogni istituto e gli stessi pazienti, a cui sarebbero in questo modo concessi nuovi livelli di consapevolezza. Un’esigenza confermata dai dati. Per esempio, un rapporto redatto dall’editore Springer Nature, uno dei maggiori del settore, ha reso noto il traffico di lettori sui propri articoli open access nel corso del 2020: gli utenti generici, inclusi appunto insegnanti, avvocati, pazienti, erano il 28% del totale. Ai quali va sommato un ulteriore 15% di personale dell’industria e di personale medico non direttamente operativo nel mondo della ricerca.

La pressione che questa macchina del dentro e fuori genera finisce per schiacciare, comprimendole, le possibilità di conoscenza, e per rinnegare in parte l’idea stessa di scienza, che per definizione è continuo confronto, critica, revisione, dibattito, contaminazione di saperi e che, per poter essere tale, deve per forza di cose essere esposta, visibile, partecipata. La conseguenza è che a perderci siamo tutti.

È solo nell’ultima ventina d’anni che il problema si è evoluto da elefante nella stanza a vero e proprio tema di dibattito a caccia di soluzioni concrete. E quel che è assolutamente chiaro, dopo le prime iniziative che tentavano di boicottare o “mandare in tilt” il business delle pubblicazioni a partire dal basso, è che solo un’azione coordinata e trasversale è in grado di generare un cambiamento. Altrettanto chiaro è che non esiste, purtroppo, una soluzione semplice, né tantomeno immediata, al problema: esistono, semmai, alcune vie più percorribili di altre.

Quella che sembra più promettente, e che stiamo sperimentando, prevede di creare una serie di incentivi che, come una leva, spinga i ricercatori verso la produzione di paper aperti, cioè situati al di fuori del classico circuito a pagamento.

 

L’inizio di una rivoluzione

È qui che si colloca Plan S, il risultato di una lunga serie di riflessioni e mediazioni verso l’open access, e allo stesso tempo un passo importante per provare a dare una svolta all’intero sistema.

Nato due anni fa, Plan S è una coalizione di agenzie nazionali (17 in totale) e di alcune grosse agenzie private che si occupano di fornire fondi alla ricerca (tra le quali Wellcome Trust e Howard Hughes Medical Institute, due dei maggiori finanziatori mondiali della ricerca biomedica, ma anche John Templeton Foundation e Bill & Melinda Gates Foundation, per esempio) unite da una linea comune: non finanziare più progetti scientifici i cui risultati non saranno messi in circolazione, il prima possibile, in un formato open access. Si tratta di un modo per spronare i ricercatori a mettersi in gioco sottoponendo le proprie pubblicazioni a testate alternative, con la prospettiva di ottenere nuovi fondi, e molto prestigiosi, per la ricerca.

E è anche un’enorme spinta a evolversi per le case editrici stesse. Innescato questo nuovo meccanismo, è infatti probabile che si instauri uno scenario in cui molti dei migliori ricercatori riusciranno a ottenere questi fondi. E così, seguendo le regole di Plan S, una grossa fetta della migliore ricerca in Europa sarà inevitabilmente pubblicata in un regime open access. Una prospettiva che i grossi editori non potranno certo permettersi di ignorare, perché preme sul loro modello di business dall’interno.

Il 2021 è per Plan S l’anno della svolta: i suoi principi sono già entrati in vigore. Questo significa che adesso gli autori finanziati dalla coalizione sono tenuti a pubblicare i risultati delle proprie ricerche in modo che siano accessibili a tutti, attraverso varie modalità. L’opzione più semplice, accettata da alcuni editori negli ultimi anni, è quella cosiddetta del green open access, cioè rilasciare i risultati su riviste, comprese quelle che normalmente applicano il paywall, in una versione completa e revisionata se non ancora sua formattazione finale. Questo ne garantisce la gratuità e ovviamente incoraggia altri ricercatori al confronto, ma ha anche dei limiti non trascurabili, come per esempio una minor indicizzazione rispetto ai classici paper e una scarsa possibilità di essere rintracciati con motori di ricerca che si basano sull’intelligenza artificiale, sempre più utilizzati e ormai fondamentali nella gestione dei big data.

 

Oro e diamanti

Un altro esperimento è quello del gold open access, che inverte in un certo senso i ruoli rispetto al pagamento delle pubblicazioni: a dover investire e rendere conto dei costi di produzione, in questo caso, non è il fruitore, bensì gli autori stessi della ricerca. Il vantaggio di questo modello è che tutti i potenziali lettori possono accedere liberamente ai risultati, pubblicati nella loro forma finale. A subire una stretta sono però i ricercatori: solo quelli che hanno fondi sufficienti per far fronte alla spesa (con prezzi che vanno da 1.500 ai quasi 10mila euro per una singola pubblicazione) possono adottare questa modalità. E questo solleva problemi enormi. Gli scienziati di istituzioni molto ricche, in paesi sviluppati, ne escono avvantaggiati, mentre chi si trova in istituzioni, o realtà nazionali, più povere, viene tagliato fuori dal sistema, assieme a tutti i ricercatori ai primi stadi della carriera (come gli studenti di dottorato, che difficilmente hanno a disposizione grossi budget). Così, ancora una volta, a essere penalizzata è la moltitudine di voci, specie nuove ed emergenti, che possono apportare un valore aggiunto alla conoscenza.

Proprio perché ciascuna di queste strade, al di là della fruizione gratuita, presenta alcuni limiti innegabili, i membri di Plan S – ma non solo, esistono altri progetti paralleli che portano avanti gli stessi valori  – stanno lavorando su strategie alternative, che mirano alla gratuità su entrambi i fronti (autori e fruitori) e, allo stesso tempo, garantiscano la sostenibilità (per le case editrici) del sistema. Così si va verso un meccanismo che prenderà il nome di diamond open access, che sarà fondato su investimenti garantiti non dai singoli autori, bensì da intere istituzioni o, meglio ancora, da nazioni pronte a investire in una piattaforma comune in grado di accogliere varie riviste in formato aperto. Farlo significherebbe ricavarne un ritorno in reputazione, per esempio, oppure stimolare la ricerca in uno specifico settore a cui siano particolarmente interessate.

 

Vedute dal futuro

Anche se a oggi non abbiamo ancora una soluzione definitiva, il dado è tratto. Il settore è in grande evoluzione. È ormai innegabile che i paesi più avanzati, che ospitano le università più ricche e più popolate, abbiano una grande responsabilità e che, mettendosi in gioco potrebbero dare il colpo di coda per l’apertura dei contenuti. Ma è sempre più evidente anche la necessità di scambiare dati e pubblicazioni nella maniera più efficace possibile in modo trasversale e transnazionale, così come accade nella scienza stessa, dove il divario economico e le frontiere nazionali non hanno alcun senso di esistere. E come, d’altronde, la pandemia sta brutalmente testimoniando.

I tempi di questo “viaggio”? È razionale pensare che il sistema delle pubblicazioni scientifiche cambierà radicalmente in direzione open entro i prossimi cinque anni. C’è fermento, ci sono moltissimi consensi, e questo movimento è ormai inarrestabile. E, se proviamo ad allargare lo sguardo oltre ai risultati della ricerca, iniziamo a intravedere anche quelli che sono gli altri moti paralleli: l’open data, la condivisione dei dati e dei metodi che vengono via via sviluppati, lo scambio dei materiali stessi, come per esempio campioni biologici (non solo virus, ma anche campionamenti ambientali, per esempio). Tutto questo, prima o poi, dovrà trovare piattaforme sulle quali muoversi, amplificando le possibilità di indagine alla loro massima espressione.

Abbiamo di fronte un lavoro immenso, ma è solo così che potremo farci trovare preparati ad affrontare le nuove sfide globali. Anche le più inaspettate.

(Testo raccolto da Alice Pace. Credit immagine: Beeple)





[Fonte Wired.it]