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venerdì, Dic 06

Bambina precipita dal balcone e l’umanità si divide in chi abbraccia e chi cerca un colpevole


La tragedia di Tasnuba, 3 anni, lasciata sola per 15 minuti dalla madre, divide il mondo tra la vicinanza reale della gente del quartiere e il moralismo di chi s’indigna in remoto

Mercoledì, a Genova, è morta una bambina di tre anni.
La città era al centro di una tempesta di vento gelido, che soffiava a 70 km/h, Tasnuba, aveva la febbre alta ed era rimasta a casa dalla scuola materna, con la mamma.
Alle 16.30 la bambina dormicchiava, ma la mamma doveva uscire a prendere le due sorelle maggiori, che uscivano dalla scuola primaria, distante poche centinaia di metri da casa.
Cosa fare? Senza appoggi esterni e qualcuno da poter chiamare per dare un’occhiata a Tasnuba per un quarto d’ora, la mamma sceglie di non portare fuori la bambina nel vento gelido, e corre a prendere le sorelle, lasciandola a casa.

Bastano pochi minuti, ma sono quelli fatali perché la bambina, forse sentendo la voce della mamma di ritorno verso casa, esce sul balcone e si sporge, cadendo dal quinto piano della vecchia casa del centro storico. Una tragedia che forse affonda le radici nella solitudine, nell’assenza di rete di prossimità, e di quei nonni pensionati su cui le famiglie italiane – in particolare quando i figli sono due o tre – appoggiano spesso il peso organizzativo dei pomeriggi e delle giornate di malattia dei bambini.

Al dramma di questa bambina e della sua famiglia, due comunità hanno reagito in termini completamente opposti. La comunità del centro storico di Genova– un vero e proprio paese nella città – composto da insegnanti, compagni di scuola, genitori, negozianti della zona di via del Campo, si è stretta intorno alla famiglia di Tasnuba.
Dopo un primo momento di sgomento e dolore, è infatti partita immediatamente la proposta di collette per pagare l’avvocato, così come la ricerca di un nuovo appartamento che possa consentire ai genitori di non dover più entrare nella casa della tragedia, fino all’abbraccio profondo dei compagni di classe delle sorelle maggiori che, domani, andranno a prenderle sotto casa per accompagnarle tutti insieme fino alla scuola primaria Daneo.
Un abbraccio che trova la sua conferma anche nelle parole della Dirigente Scolastica dell’IC frequentato dalle tre bambine che, esprimendo il suo dolore, ha sottolineato la solerzia della famiglia, sempre presente e attenta al benessere delle figlie e alla relazione con la scuola e con la comunità.

Contemporaneamente, però, un’altra comunità – quella liquida, che si incontra soltanto sui social – non ha perso un secondo prima di trasformarsi in un giudice arbitrario e inflessibile.
I colpevoli, per gli hater, sono subito individuati: in primis la mamma, ovviamente. E poi la cultura d’origine, la mancata integrazione, l’incoscienza. Centinaia di commenti, contraddistinti da una totale assenza di empatia e di pìetas, sono comparsi in rete a seguire gli articoli che davano conto del fatto, commenti che poi sono stati saggiamente bannati sui gruppi Facebook e dalle testate online.

Due comunità che anche questa volta – come di fronte a molte altre tragedie, come ad esempio per le morti causate dagli accidentali abbandoni in macchina dei bambini piccoli – si sono trovate contrapposte: la prima, impegnata nell’espressione di un sentimento di vicinanza, di supporto e di aiuto concreto; l’altra, lanciata senza freni inibitori nel gioco al massacro, nei maldestri tentativi di autoassoluzione, nell’auto rappresentazione della perfezione familiare.
La comunità che esprime vicinanza e supporto, è anche quella che sceglie di sentire il dolore della famiglia di Tasnuba, restando vicina e attiva. Gli hater, invece, non conoscono, e non si riconoscono, in questo sentimento collettivo. E restano alle prese con il loro odio, senza avere la possibilità di stringersi stretti gli uni agli altri, anche nei momenti più duri.

Difendere le città dalla parcellizzazione delle vite e dalla perdita degli spazi comuni, significa anche difendere tutto questo: un mondo in cui non sentirsi soli, neanche se non si parla la lingua con la quale comunicano gli altri, per trovare la forza di affrontare anche quello che non dovrebbe mai capitarci. Come la morte accidentale di un figlio.

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