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mercoledì, Dic 11

Boris, avvelenatore di pozzi – Wired


Ben prima della Brexit, nel 1992, il primo ministro britannico si divertiva a fomentare i sovranisti in Danimarca. Ritratto di un biondo masaniello anti-Bruxelles, dal libro “Il popolo contro il popolo” di Antonello Guerrera

(foto: Ben Pruchnie/Getty Images)

Certo che gli articoli di Boris Johnson hanno avuto un’influenza. Johnson scrisse che se i danesi avessero votato di sì al referendum su Maastricht, avrebbero avuto molta più Europa a casa loro, molta più integrazione e così via. Quando dissi che erano tutte idiozie, mi chiamarono maledetto bugiardo”. (Ulle Ellemann-Jensen, Ministro degli Esteri della Danimarca all’epoca del referendum popolare del 1992 sul trattato di Maastricht respinto dal 50,7 per cento dei danesi, in una recente intervista al Guardian).

David Cameron è il principale responsabile del referendum del 2016 vinto dalla Brexit. È noto: l’ex premier conservatore lo ha avallato per sedare – una volta per tutte – l’atavica e indomabile ribellione euroscettica nel suo partito conservatore, contando di vincere piuttosto facilmente come in quello sulla Cee nel 1975. Invece, Cameron ha clamorosamente perso e in una sola notte: da araldo dell’europeismo riformato si è tramutato nel buttafuori sdraiato dell’ultima, definitiva deriva sovranista del suo paese. 

Uscite le sue attesissime memorie For The Record (“per la cronaca”) nel settembre 2019, Cameron si è cosparso pubblicamente il capo di cenere in numerose interviste, attaccando però anche i suoi due più grandi traditori: Michael Gove, già pluriministro e oggi responsabile governativo della preparazione al No Deal, e, guarda caso, proprio Boris Johnson. Perché fu proprio il loro carismatico salto nelle tenebre della Brexit (Gove il primo temerario dei due) a rivelarsi un fattore decisivo nella vittoria degli euroscettici.

Cameron cova ancora un astio raro per Gove e per Johnson, anche perché sono tra i responsabili della morte della sua carriera, fino a quel momento stellare. Ma se riavvolgiamo il nastro di qualche anno, se torniamo alle radici di questo terremoto che ha scosso l’Occidente, forse il principale teorico e responsabile della Brexit è proprio Boris Johnson. 

Boris, il biondo masaniello anti-Bruxelles, il nobile arruffapopoli isolazionista, il bizzarro sobillatore dell’euroscetticismo contemporaneo. Per via di quell’aria guascona e scherzosa, negli anni in molti lo hanno sottovalutato o drammaticamente sminuito. Poi se ne sono pentiti. Come i colleghi giornalisti a Bruxelles che lui sfruttava copiando o edulcorando le loro notizie, millantando incapacità o falsa modestia (“Io premier? È più probabile che Elvis venga ritrovato su Marte o che io mi reincarni in una pianta di ulivo”). O come Ken Livingston il rosso, l’ex sindaco laburista di Londra, che nel 2008, contro Boris, è riuscito a perdere le elezioni della capitale nonostante un vantaggio iniziale di 17 punti nelle intenzioni di voto.

Il curioso paradosso è che l’euroscetticismo sagomato da Boris Johnson, quando era un giovanissimo e ruspante corrispondente da Bruxelles per il Daily Telegraph (1989-1994), ha dilagato non solo nel Regno Unito. Le sue scorie sono infatti arrivate in altri paesi europei, con conseguenze considerevoli. 

C’è un eccezionale esempio a sostegno di questa tesi. È avvenuto in DanimarcaTutto nasce da uno dei tanti irriverenti, allarmisti e sensazionalistici articoli di Johnson, che ad attaccare e umiliare l’Europa nel suo cuore (Bruxelles) ci prende gusto, giorno dopo giorno. Le sue frizzanti critiche, esagerazioni, mezze bufale conquistano costantemente la prima pagina del suo giornale. In patria diventa presto il cavaliere dell’antieuropeismo e il cocco della lady di ferro Margaret Thatcher e del partito conservatore. 

In una placida domenica del maggio 1992, il Telegraph pubblica un incendiario articolo di Boris. Titolo: “Così Delors vuole governare l’Europa”. 

Citando fonti molto probabilmente fantasiose e speculando su un incontro dei ministri degli Esteri europei a Guimarães, in Portogallo, Boris rivela che l’allora presidente della Commissione Ue Jacques Delors, uno dei padri dell’Unione Europea, si sta preparando a sferrare “la sua offensiva federalista che metterebbe a repentaglio le sovranità di tutti gli stati membri, risucchiando molte libertà”. 

L’articolo emerge in un momento delicatissimo. Sono i mesi della firma del trattato di Maastricht, pietra miliare dell’Ue di oggi, e alcuni paesi organizzano dei referendum popolari per decidere se approvare questo nuovo passo verso un’Europa ancora più unita.

Nonostante all’epoca non ci fossero ancora Twitter, Facebook e tutti i portali virali di internet, l’articolo di Johnson arriva a Copenaghen. Diventa, sorprendentemente, il vessillo di sovranisti ed euroscettici danesi dell’epoca, che addirittura ne stampano estratti su migliaia di volantini. “Ecco che cosa dice la stampa inglese di questo accordo di Maastricht, leggete, leggete”, “Così l’Europa vuole conquistarci”, “Cambierà per sempre la nostra storia” eccetera. 

A Copenaghen si diffonde il panico, come ricorda Charles Grant nel suo Delors: Inside the House that Jacques Built. Nel paese nordico l’atmosfera è così tesa che, dopo l’articolo di Boris, addirittura il governo danese chiede ufficialmente spiegazioni a Delors. Minaccia di mettere il veto a un suo nuovo mandato alla presidenza della Commissione europea a meno che non faccia marcia indietro sulle “preoccupanti” idee federaliste citate da Johnson nel suo articolo. Delors, racconta Grant, “era così pallido in volto che sembrava aver appena ricevuto un elettroshock”.

Ovviamente non c’è controprova, ma, in base a queste premesse, l’allarmismo di Johnson ha avuto un impatto molto probabilmente decisivo sul referendum del 2 giugno 1992. Perché quel giorno in Danimarca il No a Maastricht vince con il 50,7 per cento.

estratto da Antonello Guerrera – Il popolo contro il popolo (Rizzoli)

 

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