Braveheart – Cuore impavido di Mel Gibson spegne 30 candeline, ma è come se fosse uscito ieri, almeno per l’amore, la centralità nell’immaginario collettivo e la popolarità che gli sono tuttora riconosciute. Era il 18 maggio del 1995 quando veniva mostrato per la prima volta in sala e al di là del numero assurdo di errori e infedeltà storiche, questo colossal ha avuto un impatto unico, irripetibile nella industry e nel modo di concepire un certo tipo di cinema.
Un film da 70 milioni di dollari nato da una vacanza
Braveheart, il suo successo pazzesco, nascono (come spesso succede nel cinema) quasi per caso o comunque per una serie di coincidenze e decisioni slegate da una volontà chiara e diretta. Nel 1983 Randall Wallace, scrittore e sceneggiatore quasi sconosciuto all’epoca, fa una vacanza in Scozia, ad Edimburgo. Quando si trova di fronte una gigantesca statua e legge il nome di William Wallace, rimane incuriosito dal suo quasi-omonimo. Scopre che è uno degli eroi per eccellenza di quella terra, e dalla leggenda di quel guerriero del XIV secolo, nasce l’idea di fare una sceneggiatura. Passano gli anni, lo script finisce sotto gli occhi del produttore Alan Ladd Jr., che prima lo propone alla MGM, e poi trova in Mel Gibson un partner interessato a dirigere l’adattamento. Udite, udite, il divo di Arma Letale non voleva essere il protagonista, aveva pensato a Brad Pitt o Jason Patric per interpretare Wallace. Va a finire che, oltre ad essere produttore con la sua Icon Productions, e regista, Gisbon verrà “costretto” dalla Paramount ad essere lui Wallace, come garanzia per i 50 milioni di budget.
Braveheart verrà girato soprattutto in Irlanda, più che in sulle Highlands scozzesi. Le riprese saranno un incubo, a causa della pioggia, del fango, tanto che si dovranno aggiungere altre 5 settimane per cercare di completare il film, facendo salire il costo finale a 70 milioni. L’esercito irlandese fornisce 2mila uomini per fare da comparse, non sono così tanti e allora Gibson fa l’unica cosa possibile: li usa per entrambi gli schieramenti in campo. Eppure, a dispetto di tutto, di un’aria a volte un po’ raffazzonata da b-movie che ogni tanto spunta impertinente, questo colossal storico sanguinolento, epico, eroico, indossa una maschera di verosimiglianza e realismo tanto potenti quanto in realtà poco reali. William Wallace aveva poco più di vent’anni quando diventò il simbolo della ribellione scozzese contro Edoardo plantageneto, ed era veramente un cristone di due metri e passa. Guerrigliero, bandito, cavaliere, visse anche in Francia, ma la sua figura rimane avvolta nel mistero, per una propaganda nazionalista durata secoli, e leggenda e realtà sono indistinguibili. E dove la storia non arriva, deve per forza arrivare il mito.
Mel Gibson ci porta dentro un racconto in cui il genere cambia completamente rispetto a Rob Roy di Michael Caton-Jones o il Robin Hood di Kevin Costner. Il XIV secolo di Braveheart e in realtà è un misto tra i secoli bui e la verità, a partire da quel Kilt in realtà inventato nel ‘700 da un tedesco, per poi passare a armature, vestiti, scene di battaglia mastodontiche, ma irrealistiche. Le vere battaglie a Stirling Bridge, Falkirk, erano ben diverse dalle zuffe da stadio che il fu Mad Max imbastisce, ma non si può negare che quel caos sanguinolento catturi l’occhio in modo incredibile, in virtù non solo di una regia fantastica, che anticiperà per certi versi ciò che Steven Spielberg sarà capace di fare in Salvate il soldato Ryan, ma anche di un montaggio e un ritmo perfetti. Sangue, arti mozzati, teste fracassate e gole tagliate non mancano, e pensate che in realtà Braveheart doveva essere ancora più violento. La Paramount però chiese di mitigare la cosa per non incorrere nel limite R-17 che poteva costare caro al botteghino. Nel mezzo delle riprese poi, ecco che arriva un gruppo di animalisti.
Erano infuriati perché sicuri che i cavalli usati nelle riprese vengano maltrattati, come nel Waterloo di Bondarcuk. Sorpresa delle sorprese (magari manco lo sapevate) gran parte dei cavalli nel film sono falsi, sono robottoni non dissimili da quelli usati per ricreare i bufali in Balla coi Lupi, sono alimentati da bombole di azoto e vanno come il vento. Realtà e apparenza, verità e mistificazione, come le facce pitturate di Wallace, in realtà tradizione dei Pitti bastonati dai Romani. Oppure quando invece delle picche con cui Wallace creò gli Schiltron, variante della falange macedone, i nostri eroi brandiscono come invasati pali degni degli uomini di Neanderthal. Eppure, nonostante questo, Braveheart è un film straordinario, pur essendo forse il film del suo genere più distante in assoluto dalla realtà storica, quella che porterà fuori strada Oliver Stone con il suo Alexander. A quel film e a molti altri negli anni a venire mancherà ciò che invece Mel Gibson riesce a creare qui: un racconto epico, comprensibile e coinvolgente, su un uomo capace di sacrificare ogni cosa per un’ideale.
L’eredità di un colossal capace di diventare mito universale
Già trent’anni fa ovviamente gli storici strabuzzano gli occhi, il vero William Wallace non è che fosse uno stinco di Santo. Lo rende tale Mel Gibson, uomo e cineasta da sempre appassionato di profeti, guide spirituali, grandi ideali. Crea un eroe che raccoglie l’eredità di Errol Flynn, Charlton Heston, Robert Taylor, i grandi divi del genere nella Hollywood che fu. Il suo William Wallace è astuto, ironico, sexy, ma l’incredibile carisma di Gibson sa anche come renderlo raggelante, violento. Poi eccolo disperato e piangente, prima per la morte della Marion (Catherine McCormack), casus belli che ne decide il destino, poi per il tradimento di quel Robert Bruce (Angus MacFayden) che nella realtà fu il vero, grande artefice della vittoria scozzese. Ci proverà Outlaw King di David Mackenzie più di vent’anni dopo a cercare di fare giustizia, ci donerà un Edoardo plantageneto più realistico con Stephen Dillane, ma neppure lontanamente paragonabile al terrificante Patrick McGoohan. Il suo Edoardo è un machiavellico predatore possente e gelido, crudele e astuto, è il potere della tirannia.