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sabato, Nov 09

Caduta del muro di Berlino, la storia del discorso di Reagan


Quello del 12 giugno 1987 doveva essere un discorso senza riferimenti al muro per Reagan, pena la crisi diplomatica con Gorbacev. Ma la storia è fatta di scelte controcorrente

La mattina del 12 giugno 1987 alla caduta del muro di Berlino mancavano ancora due anni abbondanti, e l’inconfondibile cielo ingrigito della capitale tedesca accoglieva 40esimo presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan per le celebrazioni dei 750 anni della città. L’ex attore – revers classico, cravatta rossa e riga a destra d’ordinanza – seguendo un programma fitto aveva già visitato il palazzo del Reichstag, per poi dirigersi verso la Porta di Brandeburgo coi migliori auspici; d’altronde col suo omologo sovietico, il segretario del Pcus Michail Gorbačëv, le cose andavano bene, e non c’era ragione di pensare che presto non sarebbero andate anche meglio: le parole d’ordine di apertura di glásnost e perestroika rilanciavano le speranze di pace, e Usa e Urss, i vecchi nemici, si erano già seduti al tavolo per discutere la drastica riduzione delle testate nucleari che da decenni si puntavano contro.

(foto: MIKE SARGENT/AFP via Getty Images)

C’era, però, ancora quel muro, simbolo eterno di un continente diviso a metà. Lo stesso Reagan l’aveva scrutato dietro uno spesso strato di vetro antiproiettile dopo aver visitato il parlamento tedesco, arrivando con lo sguardo fino ai checkpoint della Germania Est, per poi lasciare all’emittente Cbs una smorfia amareggiata: “È una brutta cicatrice”. Poco dopo, alle due di pomeriggio, davanti alla porta di Brandeburgo il politico simbolo degli anni Ottanta avrebbe pronunciato uno dei discorsi politici più rilevanti della storia occidentale. La durata cronometrica si ferma a 26 minuti, ma quello che avrebbe fatto la storia è soltanto “Mr. Gorbacev, tear down this wall!” (“signor Gorbacev, abbatta questo muro!”).

Le parole che non dovevano esserci

Reagan – a suo agio nel parlare sul palchetto allestito in una città blindata, scossa da violente manifestazioni e stretta in una morsa di polizia accanto al cancelliere della Germania Ovest Helmut Kohl, al sindaco di Berlino Ovest Eberhard Diepgen e all’ambasciatore americano Richard Burt – non era nuovo a manifestazioni di antipatia nei confronti della barriera berlinese: già nel 1978, da governatore della California, aveva detto a un membro del suo staff “dobbiamo trovare un modo per buttarlo giù”; cinque anni prima della visita fatale, nel 1982, il presidente aveva già chiesto polemicamente ai leader sovietici cosa ci facesse lì quel muro, e appena l’anno precedente aveva usato la Bild per chiedere ufficialmente “a coloro che sono responsabili” di demolirlo. Ma ora i rapporti con l’Unione Sovietica erano molto migliorati, si diceva, e per la prima volta dopo quarant’anni la diplomazia americana vedeva la proverbiale luce in fondo al tunnel. Nel suo tour europeo, dunque – Reagan era arrivato a Berlino subito dopo il G7 a Venezia – era fondamentale dimostrarsi concilianti e non forzare la mano. Ecco perché nessuna persona sana di mente – in tempi decisamente pre-Trump, in cui stava all’entourage presidenziale vagliare ogni intervento della Casa Bianca – avrebbe permesso al presidente di rivolgersi direttamente a Gorbacev e chiedergli di picconare il muro.

La storia del perché invece successe è stata raccontata da diverse ricostruzioni, ma passa anzitutto da uno spin doctor di Reagan, Peter Robinson, che secondo la sua storia (poi pubblicata nel suo memoir How Ronald Reagan Changed My Life) era stato incaricato di produrre una bozza di discorso per la passerella berlinese. Il Dipartimento di stato, tramite un alto funzionario, si era premurato di dirgli che il presidente non avrebbe dovuto, per nessun motivo, citare il muro: d’altronde, a suo dire, i tedeschi ci erano ormai abituati, e non era il caso di mandare a monte ogni sforzo diplomatico solo per affrontare l’argomento. A quel punto, Robinson dice di aver voluto toccare con mano: si recò personalmente a Berlino Ovest e accettò un invito a cena da parte di un gruppo di berlinesi. Si fece coraggio e chiese a uno di loro se era vero che i locali ormai facevano spallucce davanti al muro di Berlino, e questo gli rispose con freddezza che non avrebbe mai potuto abituarcisi, dato che negli ultimi 20 anni gli aveva impedito di vedere sua sorella. La padrona di casa, nel racconto di Robinson, prese la parola per aggiungere che se Gorbacev faceva sul serio doveva “abbattere questo muro”.

(foto: courtesy US National Archives)

Non tutti sono d’accordo con questa ricostruzione: l’allora responsabile capo della scrittura dei discorsi presidenziali Anthony Dolan nel 2009 ha detto al Wall Street Journal che la frase fu un’idea dello stesso Reagan, generata in un incontro a porte chiuse nello Studio Ovale; altri funzionari della Casa Bianca dell’epoca sottolineano che l’idea era già molto solida nella mente del presidente, e difficilmente Robinson può prendersene l’intera paternità. Quel che è certo, però, è che i più intimi strateghi di Ronald Reagan si opposero fino all’ultimo a tenere “tear down this wall” nello script presidenziale, e dovettero arrendersi pressoché a fatto avvenuto, quando la folla di migliaia di persone davanti alla Porta di Brandeburgo era già diventata una massa di applausi e voci festanti.

In quei giorni, spiegava il Time in un articolo dedicato al ventennale del discorso, le parole di Reagan ottennero una copertura modesta, quella di una mossa politica magari avventata (la Tass sovietica parlò apertamente di “provocazione guerrafondaia”; il membro del Politburo della Ddr Günter Schabowski di “un’assurda dimostrazione di un artefice della guerra fredda”) ma tutto sommato non troppo diversa dalle altre. Poi, nel 1989, il muro iniziò a cadere davvero. Nella sua autobiografia uscita l’anno dopo, An American Life, Ronald Reagan non risolve l’arcano dell’origine della frase, limitandosi a dire che ci “teneva molto”. A settembre dello stesso anno, si fece ritrarre mentre dava martellate a una delle sezioni di muro ancora in piedi. E a Berlino è tornato ancora, un’ultima volta: notizia di queste ore, l’ambasciata americana nella capitale tedesca si è dotata di una statua in bronzo alta due metri con le fattezze dell’ex presidente, ritratto in uno di quei suoi rassicuranti sorrisi hollywoodiani, e l’ha rivolta verso le parole che hanno cambiato per sempre la Germania e il mondo.

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