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sabato, Lug 25

Capire l’America della pandemia con William T. Vollmann



Da Wired.it :

L’autore che più di tutti ha decostruito il mito del sogno americano è lo scrittore perfetto da rileggere ai tempi di un’emergenza che sembra aver messo in ginocchio gli Stati Uniti

(foto: Ulf Andersen/Getty Images)

L’America (o sarebbe meglio dire le Americhe) rimane il fulcro della pandemia globale, con contagi e morti che continuano a salire, complici certe scelte discutibili del presidente Donald Trump e di taluni governatori, le pessime condizioni lavorative di molti e un clima di emergenzaStiamo assistendo alla fine dell’impero americano? E ipotizzando che la risposta sia tragica e affermativa, chi meglio di un autore fenomenale e sui generis come William T. Vollmann potrebbe raccontare questi Stati Uniti?

Ci troviamo di fronte un’America bizzarra, autolesionista e profondamente desolata e desolante: la pandemia ha enfatizzato le differenze tra mondi, società, persino etnie. Dove le realtà marginali vengono battute sempre più da un sistema sanitario inesistente e dominato dalle possibilità economiche di pochi contro molti, dall’altro l’emergenza Covid ha fatto esaltato conflitti razziali e politici mai sopiti. 

Giornalista hack capace di lanciarsi da solo in imprese rischiosissime, tra viaggi pericolosi nei luoghi di guerra (Afghanistan, Balcani) a notti per le strade con hobos e prostitute – ma anche uno degli ultimi romanzieri a tenere viva la vena del massimalismo postmoderno con un rinnovato sguardo storico –  tutta l’opera ricca del prolifico Vollmann pare un lungo discorso di destrutturazione del sogno americano, che non prescinde per questo dalla storia europea, specie di guerra, di genocidio e di frontiera. 

Sebbene a fasi alterne, Vollmann è un autore tutt’altro che trascurato nell’editoria italiana. Prima con le prime coraggiose proposte Fanucci e Alet, quindi con Mondadori che lo porta persino negli Oscar e oggi con minimum fax, casa editrice che ha rilanciato gli ultimi romanzi dell’autore per il pubblico italiano. 

Ultimo in ordine di apparizione, a febbraio 2020, è il suo famoso reportage sui generis durante la guerra in Afghanistan: Afghanistan Picture Show, sottotitolo: ovvero, come ho salvato il mondo per l’editore minimum fax. Nei primi Ottanta, in piena guerra tra Russi e mujaheddin, il giovane Vollmann si lancia senza paracadute tra le zone del conflitto, intromettendosi con ardore e ingenuità tra i capi della resistenza, generali e chi aiuta i profughi di guerra, intervistando e a volte pestando qualche buccia di banana. 

Un libro anche per genere sfrontato, tra reportage, romanzo di formazione e romanzo storico, corredato da mappe e altri documenti e raccontato da un Vollmann che rivede, passati alcuni anni, il suo stesso Io più giovane, con affetto e distanza ad un tempo. Si parte già da un’ardita epigrafe: “Questo libro è dedicato a tutti coloro che cercano di aiutare gli altri, che ci riescano o falliscano” e nella nuova introduzione si trova una dichiarazione quasi di falsa modestia per un autore molto pirotecnico: “Non sono un diplomatico né uno stratega. Il mio unico talento come osservatore politico è l’abilità di vedere e dichiarare l’ovvio”.

Da molti considerato il capolavoro di Vollmann, è arrivato negli Oscar Mondadori in nuova edizione Europe Central. Sì, il romanzo parla di Europa e non di America, ma lo fa con lo sguardo americano sul tema, da una stranissima distanza-vicinanza, che propone un dialogo davvero contemporaneo anche oggi in tempi di comunione da pandemia e di nuovi conflitti oggi più strategici, all’interno della comunità europea. 

Il libro è un romanzo-monstre pieno di vite inseguite e continui cambi di scena, dove l’autore americano ha l’ardire riuscito di entrare in uno dei conflitti più crudi e simbolici a un tempo del Novecento europeo: quello tra nazismo e stalinismo. Lo fa attraverso una quantità unica di storie minime: di vite immerse in quella storia, tra la guerra civile di Spagna ai gulag, i campi di sterminio nazi e altre frontiere continuamente ritracciate di questo conflitto immane, dove l’Europa è il centro poetico del discorso, poetico e realistico ad un tempo: “L’Europa è una mite giovenca, una vergine grassoccia, una fanciulla R o una ragazza P pronta all’amore, un angelo, una preda remissiva”, scrive Vollmann.

Troviamo anche personaggi e protagonisti realmente esistiti, come la poetessa Achmatova, o Sostakovic, che è la storia più centrale tutta tesa da un amore intenso, quello per Elena Kostantinovskaja, che incarna il desiderio di un’epica tra le rovine. Troviamo persino Hitler nel celebre capitolo “Il sonnambulo”, e tanti altri personaggi, registi di regime, generali, politici, partigiani e telefonisti di guerra, eroici o pusillanimi, che contribuiscono a raccontare gli snodi del dramma e dell’annientamento dei due totalitarismi, si direbbe in carne e ossa. 

Proseguendo idealmente tra le ultime uscite in ci troveremo di fronte due tipici prodotti vollmaniani: il racconto scomodo dei margini off-limits della società e di una particolare innocenza di Storie della farfalla – parte di una Trilogia della prostituzione – e la riscrittura delle radici storiche d’America da punti di vista alternativi con La camicia di ghiaccio e I fucili, due romanzi parte del ciclo Sette sogni, che prende di petto e riscrive il sogno americano.

Storie della farfalla potrebbe definirsi un romanzo-reportage crudo e allucinato sull’innamoramento di un uomo per una prostituta o in genere per il mondo della prostituzione come “onestissima forma di amore”. Questo innamoramento però è tutto giocato tra il rapporto di desiderio e sfruttamento (anche sessuale) tra Occidente e Oriente, sull’abiezione dello sguardo e del corpo di chi viaggia per ottenere solo un piacere sessuale che si rivela potere coloniale. 

Il protagonista, dal risvolto quasi autobiografico per Vollmann, è un giornalista americano che, nella prima parte del libro, viaggia attraverso un pretesto (inseguire i khmer rossi) per fare esperienze di turismo sessuale assieme a un fotografo, tra la Thailandia e in Cambogia.

Questo bambino farfalla – bullizzato nelle sua prima infanzia, descritta nelle prime pagine, anche nella propria educazione sessuale tra bambini – si innamorerà però alla fine, tra innumerevoli esperienze non protette di abiezione in bordelli lerci, di una prostituta di nome Vanna.  Il ritorno in America, ovvero alla sua realtà di maturità immatura, sarà per lui devastante: in cerca di nuove esperienze con prostitute americane, in crisi nera con la moglie e preso nel tentativo di portare Vanna negli States, il giornalista scoprirà di aver contratto l’Aids, una malattia che lo spingerà a tornare ad Oriente, in un tragico epilogo.

La camicia di ghiaccio e I fucili come già anticipato scavano in forma tutta vollmaniana, tra il vero documentario e un’epica mandata in tilt, sulle radici storiche e il mito della fondazione dell’America, attualissima postura in tempi di distruzione di statue e miti d’America. 

Da Ovidio”, ha detto l’autore “ho mutuato l’idea che nel nostro continente si siano succedute diverse ere, ognuna delle quali meno mitica della precedente. Per ragioni poetiche e didattiche ho stabilito che questa successione di epoche andasse suddivisa in sette momenti diversi e che pertanto ci sarebbero stati sette sogni”. 

Uno di questi, La camicia di ghiaccio, si rivolge all’incontro, tra epica e leggenda, tra vichinghi e nativi delle terre ghiacciate al Nord America. Vollmann da reportagista viaggia nei luoghi di questo scontro di civiltà, documentadosi a fondo sull’epica norrena e sulla leggenda di Erik Il Rosso, immedesimandosi come sempre tra ghiacci e la desolazione, e tracciando sul gelo una storia di corruzione – come è quella di ogni conquista. Un racconto proseguito, sempre tra romanzo documentario e visionarietà storica, ne I fucili, dove Vollmann si immedesima fin quasi a impazzire (stilisticamente ma non solo) nella mitica figura di Sir John Franklin, andato a conquistare il famoso Passaggio a Nord Est nel Circolo Polare Artico.

Vollmann si mimetizza nel mito, ne prende tutte le perversioni e virtù, lo distrugge indossandone quasi le pelli in una metamorfosi al contrario, raccontando di come l’avvento dei fucili e della polvere da sparo abbiano trasfigurato i nativi per sempre, in una sorta di sogno incubo: “eri contento di essere lì, lo so, ma ricordavi che l’isola ti aveva ingannato dall’inizio alla fine, sventolandoti davanti un oceano dopo l’altro per così tanto tempo, e anche se quella terra di iceberg a forma di navi sembrava un paradiso avevi il sospetto che altre illusioni e inganni ti avrebbero assediato in quella casa di specchi senza specchi”, si legge già nelle prime pagine. 

Si può concludere con una raccolta di racconti che può apparire altrettanto bizzarra, ma che presenta alcuni dei racconti più belli degli ultimi anni almeno per quanto riguarda quelli scritti in America. Si tratta della raccolta Ultime storie e altre storie, fin dal titolo provocatoria.

La provocazione, il limite toccato, il desiderio di sconfinare tipico dell’autore qui si esprime in racconti da molte parti del mondo che hanno per tematica: il fantasma e i suoi miti e leggende. Leggende di morte, ma anche leggende di erotismo sublime, quelle raccontate da Vollmann, con stili a volte diversi. Storie d’amore nel bel mezzo del conflitto dei Balcani, ma anche la storie dei fantasmi della prima guerra mondiale che si aggirano attorno a Redipuglia e Trieste, storie di fantasmi americani o anche messicane, di frontiera, come quelle horror della famosa Llorona. 

Qui Vollmann mette in frullatore, con genio ovidiano, le storie di fantasmi dal Giappone alla Boemia, dall’America alla Bosnia, concentrando molte delle sue tematiche: su tutte il sottile e universale rapporto tra amore, sesso e morte.

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[Fonte Wired.it]