Un racconto lucido, senza sconti, nel quale Darian non solo utilizza la scrittura come terapia ma, tramite la sua testimonianza, vuole ricordare anche un altro fatto passato in secondo piano durante la copertura mediatica della vicenda. La donna ha infatti a sua volta denunciato il padre per alcune foto che la ritraggono e che sono state trovate nel pc, delle quali non ha nessun ricordo: “Io conosco la verità, sono certa di essere stata sedata, come mia madre, ma non so il motivo – racconta Darian in un’intervista a Wired, a margine di un incontro al Salone del Libro di Torino – La questione dell’incesto è stata fuori dai radar per tutta la durata del processo, non ne parliamo, anche se è una fetta molto importante della vicenda. Mi chiedo se la società sia pronta ad ascoltare veramente questa parte della storia e non ne sono sicura. Sembra che sia consentito parlare di stupri ma che non ci sia interesse a parlare di incesti, crimini che riguardano spesso i bambini e che sono un fenomeno molto più diffuso di quello che pensiamo”.
L’ascolto delle vittime
Proprio sull’ascolto reale delle vittime, anche delle verità più scomode, si fonda, secondo Darian, l’urgenza delle lotte delle donne per una società più giusta: “Le vittime, siano queste adulti o bambini, devono sempre essere ascoltate e supportate, questa a mio avviso è la battaglia più importante. Ho visto troppe volte le parole di queste persone messe in dubbio: non sono state aiutate, c’è chi non ha creduto alle loro denunce. In alcuni casi, a non credere loro, sono state anche dalle persone vicine, la loro stessa famiglia”. Ma lo scossone provocato dal caso Pelicot, a livello collettivo, ha riguardato due questioni cruciali nelle lotte femministe: la presa di coscienza pubblica della necessità di educare al consenso e il ribaltamento della narrazione sulla vergogna, che non deve più essere sulle spalle delle vittime ma su quelle dei carnefici. Da qui la volontà, espressa da Gisèle Pelicot, di avere un processo a porte aperte perché, come dichiarato da lei stessa: “La vergogna deve cambiare campo”. E se allo stesso modo Darian nel libro spiega: “Mi aggrappo all’idea che questa mia testimonianza possa far capire che non siamo noi a doverci vergognare. Spero con tutto il cuore che aiuti anche altre vittime di orrori simili a rialzarsi in piedi”, dal vivo ai nostri microfoni aggiunge: “Essere figlia di Dominique Pelicot è qualcosa che non posso cambiare, voglio però rendere tutto quello che mi è successo qualcosa che porti luce su alcune questioni. La mia testimonianza è anche un modo per provare a dare un senso a qualcosa di indicibile che è accaduto a me e alla mia famiglia. È il mio modo per andare oltre, per fare in modo che la mia vita vada avanti trasformando tutto questo in qualcosa di positivo”.
Il consenso e la vergogna che “deve cambiare lato”
Sulla questione del consenso, per la figlia di Gisèle Pelicot si tratta principalmente di educazione: “Ci sono state e ci sono delle resistenze a parlare di consenso, ad esempio in Francia, perché siamo ancora all’interno di uno schema patriarcale della società, che dobbiamo combattere. Dobbiamo soprattutto parlarne alle nuove generazioni, per far sì che esista un vero cambio di passo rispetto al passato. Il processo tuttavia non è stato solo sul consenso ma anche sulla sottomissione chimica, che, quando c’è, di qualsiasi tipo sia, implica una mancanza di consenso. Quando parliamo di consenso nei casi di stupro dobbiamo sempre ricordare che spesso c’è sottomissione chimica, non sempre tramite droghe ma soprattutto attraverso la somministrazione di medicine”. Del resto, i numeri contenuti nel libro fanno impressione e riportano i risultati dello studio condotto dall’Agenzia nazionale francese per la sicurezza dei medicinali e dei prodotti sanitari (Ansm): sono state 727 le segnalazioni di sospetta sottomissione chimica nel 2021 (molte di più quelle del 2022 – forse anche per una maggiore consapevolezza del pubblico, ndr). Le sostanze scelte sono in genere farmaci d’uso comune: antistaminici, ansiolitici, sonniferi, oppioidi (56 per cento dei casi). Inoltre, dallo studio emerge che l’aggressore è spesso un parente stretto (41,5%) e agisce in un contesto privato (42,6%).
Per colmare la distanza tra i fatti e la percezione della loro gravità serve però una nuova costruzione della realtà. Diciassette imputati, dei 50 individuati nei materiali conservati da Dominique Pelicot, hanno deciso di ricorrere in appello considerando le pene ricevute troppo severe: “Solo uno di loro ha provato una qualche forma di pentimento nei confronti di mia madre anche se non potremo mai sapere se si tratti o meno di un sentimento autentico – sottolinea Darian – Non so dire perché sia stato l’unico e perché alcuni di loro abbiano deciso di fare appello, credo sia una questione di mentalità. Molti di loro hanno ricevuto pene al di sotto dei dieci anni quindi dopo qualche anno potranno tornare alla loro vita normale. Per me non è giusto: se guardiamo alle loro azioni, che sono state tremende, per me è come se ci fosse stata un’ingiustizia due volte”. Paradossalmente, come purtroppo viene riportato spesso, sono soprattutto le vittime a provare un senso di colpa: “Mi sono sentita in colpa per aver dato così tanta fiducia a mio padre e per non aver visto nessun segnale di quello che stava accadendo. Per me è stato difficile accettare di non aver capito chi fosse davvero e ancora oggi non so chi sia. Nemmeno il processo è riuscito a darmi questa risposta. Non so chi sia l’uomo che mi ha cresciuta perché chi pensavo che fosse è morto quando è iniziato tutto questo”.
La consapevolezza che viene dalle battaglie
In Francia qualcosa si sta muovendo, anche grazie all’eco che ha avuto il processo Pelicot e all’azione di associazioni a tutela delle vittime di violenza, come quella fondata dalla stessa Darian per aiutare chi ha subito sottomissione chimica: “In Francia stiamo per fare dei passi avanti nel supportare le vittime, come ad esempio dando la possibilità di fare dei test del capello gratuiti, esami di solito molto costosi. Stiamo cercando di accelerare i processi di diagnosi, che è un aspetto molto importante per chi subisce queste violenze”. Di fatto stiamo parlando, come ricordato anche nel libro, di un problema di salute pubblica: “In Francia è abbastanza facile procurarsi farmaci da una precedente ricetta – precisa Darian – I predatori sessuali si suggeriscono come fare. Prima del processo medici e farmacisti non erano così attenti al problema mentre dal 2020 si è risvegliata l’attenzione. Mia mamma, a causa della sottomissione chimica e delle amnesie che le procurava, aveva pensato di avere un cancro al cervello. La Tac non aveva dato esito e allora abbiamo anche pensato all’Alzheimer. Non si è mai cercato nel posto giusto, ora probabilmente non sarebbe più così”. Ed è con questa speranza, con i risultati della lotta quotidiana che anche Caroline Darian porta avanti, che la sala gremita al Salone del Libro di Torino per la presentazione della sua testimonianza si alza in piedi in un caloroso applauso, consapevole che solo con questa dolorosa battaglia di conoscenza si possono davvero cambiare le cose.