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sabato, Ott 26

Case infestate, orrore e altri racconti di Halloween


7 libri per 7 giorni: tra storie di Frankenstein transgender, poliziotti morti e case (della fiction) piene di orribili misteri, una lista di consigli per arrivare pronti alla notte dove anche i mostri ballano

(foto: Rob Stothard/Getty Images)

Si avvicina a passi felpati la notte preferita dai bambini di tutto il mondo, benché tradizione popolare americana e canadese da rintracciare nelle radici celtiche: Halloween. Una festa chiamata da qualche anno anche in Italia a ravvivare e anticipare sul calendario le più mortuarie e grigie nostre tradizioni di Ognissanti del 1° di novembre e la cosiddetta Festa dei morti del 2. Oltre all’aspetto infantile del gioco del dolcetto o scherzetto, la notte del 31 ottobre è in assoluto la festa mascherata per eccellenza, che presenta in rassegna un carnevale di mostri e demoni vari: vampiri, licantropi, zombie, spesso anche in mise scollacciate e sexy, che infestano le nostre strade e i nostri zerbini…

Ad Halloween il mostruoso può venire anche reinterpretato nella sfera della sessualità, come nel caso del recente romanzo di Jeanette Winterson. La scrittrice britannica, di culto nella cultura queer anche italiana, ha da poco pubblicato Frankissstein, rilettura del mito del mostro di Victor Frankenstein con l’urgenza (scientifica, ma anche di genere) dei giorni nostri. Il romanzo si apre apparentemente con una rilettura tutta filologicamente corretta: facendo parlare proprio la celebre autrice del libro, Mary Shelley, mentre risiede sul lago Ginevra nel 1816 e dove comporrà il suo libro. La donna, nella scena iniziale, se ne esce fuori dalla stanza dove dorme, e decide di andare a camminare, nuda, sotto una pioggia battente. Svestita e inerme, riflette sul suo corpo: “Eccomi, nella mia pelle inadeguata…. Un povero esemplare di creatura, senza il naso di un cane, e senza la velocità di un cavallo, e senza ali come le poiane invisibili le cui grida sento sopra di me, come anime perdute… Io inadeguata rispetto a quel ghiro che scompare in una fenditura nella roccia. Sono un povero esemplare di creatura, tranne che posso pensare…”. Il libro avrà presto però un vorticoso cambio di scena, verso il futuro di quel corpo pensante: ai tempi di Brexit, dove troviamo non Mary, ma Ry Shelley, una giovane dottoressa transgender che si invaghisce, mente e corpo, del professore Victor Stein, noto sperimentatore di intelligenze artificiali. Ma il romanzo amoroso muta ancora e ci racconta di una nuova impresa, fondata da un socio dello stesso Stein, che produce bambole gonfiabili all’avanguardia… Il mostruoso di Frankenstein nel romanzo della Winterson è tutto un brulicare di liason erotiche e di genere, che lega con una vertigine originale l’amore queer al transumanesimo, con ironia, e giocando tra i ruoli come in grande e nuovo iper-letterario e ibrido Rocky Horror Picture Show.

A delle mostruosità più storiche si rivolge invece un romanzo dal resoconto agghiacciante: La zattera della Medusa, dell’autore austriaco Franzobel, uscito per il Saggiatore qualche mese fa, e curiosamente legato all’anno 1816 come la Shelley. È appunto quell’anno, il 18 luglio, che al largo della Mauritania un brigantino francese avvistò uno strano relitto, una zattera che mozzò il fiato all’equipaggio dei suoi soccorritori già da lontano. Abbarbicati l’uno sopra l’altra stavano lì i corpi macilenti dei sopravvissuti del naufragio della fregata francese Medusa. L’immagine che vi abbiamo descritto è famosa: l’ha dipinta pochi anni dopo Théodore Géricault nel suo omonimo quadro. Lo scrittore austriaco si mette dalla sua – in modo narrativo – a compiere un’opera simile a quella del pittore: cioè a ricerca e studiare l’orrore di quella notizia che fece il giro del mondo. Si parlò infatti di atti di cannibalismo tra i sopravvissuti, nonché di sopraffazioni immani, torture, sevizie. Franzobel lo fa con un romanzo che da storico diventa allegorico, che mentre riporta la storia e i suoi documenti, la sfalda in visioni orrifiche e perversioni antropofaghe e immorali, inoltrandosi nella società del Medusa, composta da vinti e vincitori. Ma anche straniando con un narratore che interviene, ironizza, commenta, raffredda l’orrore con citazioni colte e pop, in un affresco postmoderno del naufragio reale, ma anche di quello storico, umano, di senso. “Era come se il mondo intero non fosse fatto d’altro che di mascelle ruminanti, di molari digrignanti, il cui crepitio, biascichio, strofinio perforava il cervello di tutti”, si legge, proprio come davanti a un film horror, il cui mostro peggiore però è la civiltà stessa.

Parlando invece di parate di morti dove alla carne è sostituto l’osso, non possiamo dimenticarci di quel momento gioioso e pieno di scheletri danzanti che sia chiama Dia de Muertos: tradizione messicana ancora per noi lontana ma sdoganata dal film Disney Coco. Stavolta però, parlando di quelle latitudini, ci sentiamo di consigliarvi una scrittrice messicana tutt’altro che festante, che l’editore New Directions ha riportato all’attenzione dei critici dopo molto oblio. Si tratta di Amparo Dávila, nata nel 1928, proposta ai lettori di lingua inglese con The Houseguest (and other Stories), una raccolta di racconti fantastici, del terrore, del meraviglioso più tenebroso. L’argomento principe di Davila è quello dell’inquietudine e della paura più profonda, quasi sempre legate a personaggi femminili scissi. Nel racconto L’ospite, che dà il titolo alla raccolta, la vita di una famiglia modesta messicana viene sconvolta dall’arrivo di un ospite tenebroso, portato un giorno a casa dal marito della voce narrante, quella della moglie. “Non potei sopprimere un urlo di orrore, quando lo vidi per la prima volta. Era lugubre, sinistro. Con grandi occhi giallastri, quasi rotondi, fissi, che sembravano penetrare attraverso le cose e le persone”, dice lei, subendone poi anche gli influssi e le conseguenze. Se leggiamo bene i racconti della Davila, i personaggi femminili costretti a guardare negli occhi l’orrore, ma anche la propria personale follia, hanno alla fine solo un incubo dal quale scappare: quello delle relazioni famigliari e sociali, dei mariti opprimenti, dei matrimoni falliti di una società conservatrice come quella messicana.

Chi volesse invece avventurarsi, per prepararsi ad Halloween, in un classico tenebrosissimo del cinema, che ha anch’esso a che fare con la follia nel suo splendore più acuto, può godersi l’abile e dotta disamina che Guido Vitiello, filosofo e intellettuale tra i più raffinati, ha donato dell’universo di Psycho col suo Una visita al Bates Motel (Adelphi). Il tentativo di ripercorre il labirinto della mente di Norman Bates, uno degli psicopatici più riusciti della storia non solo del cinema (grazie anche a quel ghigno notorio di Anthony Perkins), passa attraverso quella che potremmo definire una guida alla visita del luogo (dei luoghi) principe del thriller hitchcockiano: il Bates Motel. Il saggio attacca da un famoso refuso che colse il regista nell’annunciare il film, erroneamente comunicato alla stampa come Psyche invece di Psycho, una sola lettera dà adito alla ricerca di un gioco saggistico, tra statuette di Amore e Psiche presenti in alcuni fotogrammi al riscoprire nel film archetipi erotici come quelli di Orfeo ed Euridice o Demetra e Persefone. Il motel diventa così una camera delle meraviglie, tra riferimenti a trovatori cortesi, bronzi di Houdon, Luciano di Samostata e miti eleusini. In cui il regista, definito un vero e proprio mistagogo, avrebbe – secondo l’avvincente ipotesi ermeneutica di Vitiello – costruito un cifrato museo dell’erotismo nel quale, se si entra sprovveduti nel tentativo di violarlo, si può lasciare davvero la pelle.

Parlando di stanze dell’orrore che si moltiplicano nei propri significati, potremmo segnalare poi, anticipandone l’uscita, Casa di foglie di M. Danielewski, che uscirà il 7 novembre, grazie alla casa editrice 66thand2nd (in un formato finalmente fedele al volere dell’autore). Riassumere la trama del libro di Danielewski è arduo, ma ci troviamo di fronte a una storia che – più che fantasmi in una casa – sperimenta, attraverso una molteplicità di narrazioni, con il raccontare la casa stessa come spettro e incubo in sé. Accediamo al mistero di questa Casa, la casa stregata di Ash Tree Lane, che cambia dimensioni e si fa labirinto e spazio infinito sotto gli occhi di chi la abita, attraverso il mito di un film perduto, il Navidson Record, nel quale una famiglia – i Navidson, appunto – ha registrato gli strani fenomeni relativi alla loro proprietà: la casa è più grande al proprio interno che al proprio esterno cambia, si aprono porte, i muri si spostano, eccetera. Questo se vogliamo parlare del nocciolo del libro: ma sappiamo di questo film e di questo mistero dal manoscritto del vecchio Zampanò, che a sua volta viene ritrovato dal giovane tatuatore Truant. Un romanzo che modifica lui stesso la sua forma come un Necronomicon (ricordate il magnifico film L’armata delle tenebre?), attraverso note e sottonote, spartiti e cancellature, e che lo scrittore Jonathan Lethem ha definito un “romanzo diabolicamente brillante è impossibile da ignorare, metter giù o anche decidersi a finirlo”. 

Esplorando da spazi spettrali fino a vere e proprie cittadine e contee, ci sarebbe invece da consigliare, sul fronte del fumetto la saga horror rurale di Gideon Falls, scritto da Jeff Lemire e disegnato dall’italiano Andrea Sorrentino – che usciranno con una serie speciale DC Comics dal titolo Joker: Killer Smile sul personaggio oggi tanto in voga – da gennaio pubblicata in Italia da . Al centro del fumetto – che come il romanzo di Danielewski azzarda a volte nella struttura e gioca con il lettore per confonderlo, e la cui storia trae in parte ispirazione da Twin Peaks – si trova un fienile nero misterioso, che appare e scompare come presagio di qualcosa di orribile che prima o poi accadrà. Attorno a questo enigm, si muovono due personaggi speculari, da esso in qualche attratti ed evocati: Norton Sinclair, un giovane dai problemi psichiatrici e dalle spettrali allucinazioni e padre Fred, incaricato di diventare parroco della località maledetta di Gideon Falls. Il fumetto riesce a raccontare la complessità dell’incubo in modo molto efficace e allucinatorio tipicamente americano.

Arrivano dai territori horror a quelli del thriller-giallo metafisico, nel nostro si potrà trovare, sospeso tra la vita e la morte, un autore di culto in Italia come Antonio Moresco, recentemente arrivato in casa Sem, dove molte delle sue opere sono state riproposte. Canto di D’Arco è un’opera corposa, figlia di tutta quella meditazione moreschiana nata con Gli increati, che inizia così:“ Mi chiamo D’Arco e sono uno sbirro morto”. Uno sbirro morto che lavora per la polizia della Città dei Morti e nel mondo dei vivi. Il suo compito è assurdo: andare lì e sconfiggere il Male. Capiamo subito che il libro sposerà le strategie del noir per sconfiggere, cavalcherà il genere per domarlo verso la meditazione percussiva di Moresco, fatta di lunghe frasi e domande esistenziali rimesse in circolo più volte. Tra i molti personaggi e le scene d’azione, i mondi travalicati e gli amori sperati (come quello per la donna Quella), alla fine è il personaggio stesso di D’Arco a sopravvivere nella propria fragilità, nella mostruosa complessità del suo mondo post-mortem di presenza enigmatiche, come quelle dei bambini che cantano in coro (e già presenti nello straordinario romanzo breve La lucina), i serial killer sposi, e le schiere di seguaci dell’Uomo di Luce. “Io non voglio complici, vorrei solo arrivare a toccare i vostri cuori e le vostre menti e sentirvi vicini in questa battaglia senza speranza”, invoca D’Arco e con lui l’autore stesso.

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