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Mezzogiorno contro Putin, che cos’è

Mezzogiorno contro Putin, che cos’è



Da Wired.it :

Lo chiamano “mezzogiorno contro Putin”. Perché se è vero che l’incoronazione del capo del Cremlino è fuori discussione e avverrà, secondo tutti gli analisti, con una percentuale vicina o superiore all’80%. E che Vladimir Putin, da un quarto di secolo leader incontrastato, spera solo che la partecipazione sia più alta del solito alle elezioni dal 15 al 17 marzo si vota in Russia, in modo che il suo quinto mandato sia certifichi la più ampia legittimazione possibile. A mezzogiorno in punto del 17 marzo, però, parte dell’opposizione proverà a contarsi, e a far capire che una Russia contraria al despota, seppur quasi cancellata dai media, esiste ancora e prova resistere.

La proposta

L’appello è partito Yulia Navalnaya, la vedova del principale dissidente russo, Alexei Navalny, che ha diffuso un video su YouTube incoraggiando tutti coloro che si oppongono Putin a partecipare a una protesta non violenta, simbolica, senza alcuna speranza di sovvertire il risultato elettorale. “Il mezzogiorno contro Putin”, era stato già proposto da Navalny prima della sua morte avvenuta il 16 febbraio in una colonia penale, in circostanze tuttora misteriose. Navalny e i suoi sostenitori hanno a lungo sostenuto che Putin abbia trasformato la Russia in una dittatura vera e propria, privando le elezioni di qualsiasi valore democratico e perseguitando molti dissidenti.

L’idea è quella di presentarsi tutti insieme negli stessi luoghi al medesimo orario, rendendo difficile per le autorità disperdere i manifestanti. L’obiettivo è far vedere a milioni di persone che ci sono altri che condividono la loro opposizione alla guerra, alla corruzione e al pugno di ferro del presidente. Dopo essersi riuniti, i manifestanti potranno votare per qualsiasi candidato eccetto Putin, distruggere o rovinare la scheda elettorale, scrivere il nome di Navalny o anche scegliere di non votare. L’importante è che gli oppositori del governo si uniscano e si sostengano reciprocamente.

Cambio di vento?

Negli ultimi anni in Russia non sono tollerate zone grigie, sulla guerra. Lo racconta molto bene la la politologa Maria Chiara Franceschelli, della Normale di Pisa, nel libro scritto a quattro mani col criminologo Federico Varese, La Russia che si ribella. Un catalogo degli orrori della repressione, che colpisce i dissidenti con i pretesti più grotteschi, approfittando di una opposizione spesso divisa e litigiosa e di candidati alternativi che, in diversi casi, come il Partito comunista, promettono fare campagna contro Putin nei modi più garbati possibili, e senza dissentire da lui sulla guerra.

Dopo la morte di Navalny migliaia di russi hanno partecipato alle varie commemorazioni in suo nome, mostrando al mondo una Russia diversa da quella passiva o complice durante la guerra. Questo ha fatto da catalizzatore per l’iniziativa di mezzogiorno, partendo dalla fondazione anticorruzione di Navalny e toccando Novaya Gazeta, un giornale russo indipendente con sedi all’estero, che ha definito l’azione di protesta “la volontà di Navalny”.

Secondo Jenny Mathers, una studiosa della società Russia dell’Università di Aberystwyth in Galles, intervistata da France24, la protesta “è nello spirito di molte cose che Navalny stava facendo e chiedendo alle persone di fare: non è difficile, e con piccoli passi si può sperare di apportare grandi cambiamenti.” Andare al seggio elettorale in un momento specifico non richiede uno sforzo particolare da parte degli elettori. Per gli organizzatori, fare “massa” non renderà certo il risultato finale più imprevedibile, ma diminuirà il rischio di finire in prigione. Sarà più complicato per la polizia giustificare l’arresto degli elettori per aver svolto il proprio dovere civico. In fondo, i convenuti di mezzogiorno faranno esattamente ciò che Putin vuole che facciano: andare a votare. Più complicato sarà il passo successivo: far diventare il gesto come il primo passo di una campagna duratura, in modo da ricostruire una società civile che alla guerra, purtroppo, si sta adattando meglio di quanto sperava il fronte euro-atlantico.



[Fonte Wired.it]

Chicken Nugget, perché la bizzarra miniserie Netflix è da vedere

Chicken Nugget, perché la bizzarra miniserie Netflix è da vedere



Da Wired.it :

Se vi siete fatti l’idea che film e serie coreane siano per lo più rappresentazioni sconsolanti e pessimiste di una società oppressiva e malata, soap ridicole dalle dinamiche sentimentali irrealistiche o drammi storici che si spacciano per rom-com ma alla fine muoiono tutti, non siete lontani della realtà. Scherziamo, ma siamo seri quando vi raccomandandovi la visione del k-drama Chicken Nugget e vi assicuriamo che è qualcosa di completamente diverso. La miniserie in dieci episodi da mezz’ora dal 15 marzo su Netflix si apre con una sigla bizzarra e si presenta subito come un ancor più bizzarro racconto tra il surreale, il demenziale e il grottesco mentre segue uno dei protagonisti, vestito in colori pastello, recarsi sul posto di lavoro e incontrare il suo boss dal deviato senso dell’umorismo. Se volete conoscere un altro lato, meno conosciuto, dei k-drama, ecco cosa sapere e perché guardare Chicken Nugget.

Chicken Nugget perch la bizzarra miniserie Netflix è da vedere

Perché guardare Chicken Nugget

Ai coreani, essere paragonati ai giapponesi non piace e – per ragioni storiche che conosciamo – non possiamo dare loro torto. Eppure, più o meno consapevolmente, queste due popolazioni si sono influenzate culturalmente a vicenda, e come il K-pop ha conquistato il Giappone (e il resto del mondo), i manga hanno conquistato la Corea del Sud (e il resto del mondo). Come moltissime serie e film coreani, anche Chicken Nugget è la trasposizione di un webtoon. Pubblicato da Park Ji-Dok tra settembre 2019 e agosto 2020 su Naver, Dakgangjeong subisce innegabilmente l’influenza dei fumetti più demenziali e ilari creati dai mangaka nipponici. Con una sostanziale differenza: i cambi repentini di tono. Valga l’esempio di un film ridicolo e parodico come Secretly Greatly tratto dal webtoon Covertness di Hun incentrato su una spia nordcoreana dalle gesta imbarazzanti nella prima parte e mutato in cupissimo dramma dalla seconda, che ci ricorda di non fidarci mai delle produzioni coreane che sembrano comiche e leggere. Chicken Nugget è inequivocabilmente e irresistibilmente buffo, ma anche triste, tragico e venato di riflessioni filosofiche.



[Fonte Wired.it]

TikTok, chi vuole acquistare la piattaforma

TikTok, chi vuole acquistare la piattaforma



Da Wired.it :

TikTok è nel caos più totale. Da un lato le autorità governative statunitensi, che stanno facendo pressione su Bytedance per vendere la piattaforma pur di evitare un ban dal paese, e dall’altro la dirigenza del social, che in più di un’occasione ha lasciato intendere che la società non ha alcun interesse a vendere. Nonostante questo, negli Stati Uniti i magnati e gli investitori si stanno già muovendo per quella che potrebbe essere la più grande acquisizione degli ultimi decenni.

Il business di TikTok nel paese, infatti, vale tra i 35 e i 40 miliardi di dollari, il che significa che richiede un acquirente dal portafoglio importante. Inoltre, considerando che la piattaforma vanta oltre 170 milioni di utenti solo negli Stati Uniti, è abbastanza chiaro che chiunque la acquisti dovrà vedersela con le norme antitrust. Ma neanche questo sembra aver fermato un gruppo di magnati e uomini d’affari a farsi avanti per un’eventuale acquisizione. Vediamo allora chi potrebbe comprare TikTok nei prossimi mesi, ammesso che il presidente Joe Biden approvi il disegno di legge che riguarda la vendita della piattaforma.

Bobby Kotick, ex Ceo di Activision

Tra i nomi che si vociferano per un’eventuale acquisizione di TikTok c’è Bobby Kotick, ex CEO del colosso di videogiochi Activision. Secondo quanto riferito dal Wall Street Journal, Kotick avrebbe lanciato a Sam Altman la proposta di acquistare la piattaforma durante una cena alla Sun Valley Conference la scorsa settimana.

Steve Mnuchin, ex segretario del Tesoro

Penso che la legislazione dovrebbe essere approvata, penso che dovrebbe essere venduta”, ha dichiarato di recente Mnunchin alla CNBC, andando così in conflitto con le affermazioni del suo capo Donald Trump, che invece si è schierato a difesa del social cinese. “Capisco la tecnologia – ha aggiunto a proposito della possibile vendita della piattaforma -. È un ottimo affare. E metterò insieme un gruppo per acquistare TikTok”.

Kevin O’Leary, imprenditore

O’Leary è uno degli investitori più affermati degli Stati Uniti. Pertanto, non c’è da stupirsi che si sia proposto per acquisire TikTok, in solitaria o in associazione ad altri imprenditori. “Vale miliardi. Oggi è una delle piattaforme pubblicitarie di maggior successo nei social media – ha affermato di recente -. Tutte le mie aziende la usano. La comprerò”.

Larry Ellison, cofondatore di Oracle

Quando, nel 2020, Donald Trump ha chiesto a TikTok di cedere le sue attività a una società statunitense, Oracle e Walmart si sono subito fatte avanti, collaborando per riuscire ad avere una parte di una delle piattaforme più ambite di sempre. In quell’occasione, però, il progetto di un’acquisizione è naufragato. Ma Larry Ellison non sembra essersi rassegnato all’idea.



[Fonte Wired.it]

Intelligenza artificiale, cosa c’è nella strategia italiana

Intelligenza artificiale, cosa c’è nella strategia italiana



Da Wired.it :

TrentoL’intelligenza artificiale è stata la parola chiave del primo dei 20 appuntamenti del G7, il forum intergovernativo che riunisce le sette economie più avanzate del pianeta (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Italia, Canada e Giappone). I paesi si sono impegnati a lavorare su sistemi interoperabili di AI per il pubblico, a definire regole comuni sui sistemi digitali per il governo, a creare un centro di sviluppo delle competenze dedicato alle economie emergenti (in ottica anti-cinese) e a insistere su un codice di condotta condiviso. Roma, da parte sua, creerà una “cassetta degli attrezzi” sull’impiego dell’intelligenza artificiale nei servizi pubblici.

Al tavolo dei negoziati il padrone di casa della giornata sulla tecnologia, il sottosegretario all’Innovazione Alessio Butti, si è seduto sapendo con le proposte di una strategia nazionale sull’intelligenza artificiale in controluce. La commissione da lui nominata e capitanata da Gianluigi Greco, ordinario di Informatica all’università della Calabria, ha consegnato la relazione dei lavori iniziati lo scorso ottobre. Wired ha potuto visionare il rapporto di sintesi, che elenca dieci punti di azione nei campi della ricerca scientifica, della pubblica amministrazione, della formazione e delle imprese e suggerisce infrastrutture e modalità di attuazione del progetto. E che di fatto è il documento di cui il prossimo disegno di legge sull’intelligenza artificiale, che il governo vuole presentare entro fine mese, sarà la copia carbone.

Le 10 proposte

Se sul fronte del pubblico il piano delineato dall’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) già contiene indirizzi sulla necessità di definire linee guida su come sviluppare e adottare le AI nei processi degli enti dello Stato, peraltro tutte da decidere entro fine anno, in campo della ricerca l’invito è, tra le altre cose, a sviluppare almeno tre grandi modelli linguistici (large language model, Llm) per l’addestramento di strumenti di intelligenza artificiale, “focalizzandosi su specifici domini applicativi in cui l’Italia detiene una forte riconoscibilità internazionali [sic!] e un chiaro vantaggio competitivo nella definizione dei dataset di riferimento” e finanziando progetti blue-sky, che nel gergo accademico identifica la ricerca di base. In particolare sugli Llm, in Italia ci sono già alcuni progetti in corso (ma non sono necessariamente quelli su cui la strategia invita a investire). Wired ne ha raccontati alcuni: Modello Italia, sviluppato dalla startup iGenius con il supporto del supercomputer del Cinea; Dante, addestrato con dati aperti e a caccia di risorse per crescere; Magiq, specializzato proprio sulla lingua italiana.

Sul versante imprese, la strategia consiglia di “creare un ecosistema di facilitatori per l’AI nelle piccole e medie imprese”, tema al centro del G7. Poi creare un fondo finanziario per l’adozione di algoritmi, con formule che vanno dal venture capital ai voucher per l’innovazione; “istituire una rete di laboratori per lo sviluppo di applicazioni in contesti industriali”; sostenere le startup, anche per mezzo di un fondo dedicato (che sarà in mano a Cassa depositi e prestiti), ma anche le imprese del settore informatico, “definendo misure di sostegno per gestire pratiche di compliance normativa e certificazione, e per incentivare l’accesso alle sandboxes previste nell’AI Act per la sperimentazione di soluzioni innovative”. In parallelo, il comitato Butti raccomanda di integrare corsi sull’AI nelle università, contaminando i percorsi di studio; creare un dottorato ad hoc, “prevedendo il co-finanziamento delle borse di studio per almeno tre ulteriori cicli”, e percorsi dedicati negli istituti tecnici superiori.

Le risorse

Ora il tema è capire come questi impegni di principio si tradurranno nei provvedimenti del disegno di legge sull’AI. E come verranno usate le risorse promesse. Da un lato c’è un tesoretto da 150 milioni per alimentare fondi di venture capital dedicati a intelligenza artificiale, quantum computing, cybersecurity, 5G, telecomunicazioni, stanziato nell’ultimo decreto legge dedicato al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Palazzo Chigi ha autorizzato il suo Dipartimento per la trasformazione digitale e l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) “a sottoscrivere, in pari misura, quote o azioni di uno o più fondi per il venture capital” istituiti da Cdp venture capital, il Fondo nazionale innovazione controllata da Cassa depositi e prestiti (la cassaforte incaricata di investire il risparmio postale). Secondo il governo, con l’effetto moltiplicatore dei privati queste risorse arriveranno a muovere 800 milioni.

Il 12 marzo, nel corso di un evento sull’AI, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha promesso un altro miliardo. Questo sarà destinato a progetti di ricerca ma ancora non si sa come, né come sarà gestito, perché tutto dipende dal disegno di legge. Nel complesso, quindi, sul piatto ci sarebbero 1,15 miliardi di euro al momento. Per assicurare la buona riuscita del progetto, la commissione, composta da 13 esperti, suggerisce di creare un archivio pubblico di dataset e modelli, e di istituire a Palazzo Chigi una Fondazione per l’intelligenza artificiale, a cui affidare la regia delle iniziative, l’applicazione del futuro pacchetto di leggi e la gestione dei fondi. Il tutto in tandem con l’autorità di regolazione che, per effetto dell’AI Act, anche l’Italia dovrà nominare e per la quale il nome in pole position è quello di Agid.



[Fonte Wired.it]

Fast fashion, perché in Francia i capi costeranno di più

Fast fashion, perché in Francia i capi costeranno di più



Da Wired.it :

Il primo disegno di legge al mondo contro il fast fashion ha superato il voto della Camera in Francia e ora si attende il passaggio in Senato per la sua approvazione definitiva. Il testo, presentato dal governo, punta a istituire una tassa ambientale sui capi prodotti dai grandi produttori di fast fashion, che non rispettano le politiche climatiche e i diritti dei lavoratori, a vietarne la pubblicità e obbligare i marchi a informare i consumatori dell’impatto ambientale della loro produzione.

Come riporta uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, l’industria tessile produce da sola il 10% delle emissioni di gas serra mondiali, consuma 1,5 mila miliardi di acqua all’anno, è responsabile dell’inquinamento delle falde acquifere e contribuisce alla diffusione di microplastiche. A pesare particolarmente su questi dati è proprio il settore del fast fashion, che punta alla produzione di massa di capi a basso costo e in rapida successione.

Durante la presentazione del disegno di legge, si legge su France24, i deputati francesi hanno citato direttamente Shein, azienda cinese del fast fashion al centro di molte critiche per violazione dei diritti umani e delle politiche ambientali, che da sola produce 7.200 nuovi capi al giorno. Il nuovo provvedimento punta quindi a reagire contro gli eccessi di questo settore, limitandone la diffusione e rispondendo così anche agli appelli di ambientalisti e organizzazioni della società civile.

Non sono ancora stati diffusi tutti i dettagli della norma, che saranno pubblicati in un decreto una volta superato il voto al Senato, ma il testo parla già di una tassa ambientale e del divieto di pubblicità per le aziende del fast fashion. La tassa comporterà un sovrapprezzo iniziale di 5 euro per tutti i capi prodotti in questo settore, che verrà aumentato a 10 euro entro il 2030. I proventi saranno destinati a chi produce abiti in maniera sostenibile.

Inoltre, le compagnie del fast fashion dovranno fornire informazioni affidabili ai consumatori rispetto all’impatto ambientale delle loro attività, ma è stato rifiutato un emendamento dei Verdi che chiedeva di includere anche sanzioni minime per chi viola le regole e quote massime alle importazioni.



[Fonte Wired.it]