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Adidas ha fatto un sacco di soldi dalle scarpe invendute disegnate da Kanye West
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Adidas ha fatto un sacco di soldi dalle scarpe invendute disegnate da Kanye West | Wired Italia



Da Wired.it :

Un successo inaspettato. Il primo lotto di scarpe Yeezy messe in vendita da Adidas dopo l’interruzione della partnership con Kanye West ha attirato l’attenzione di tantissimi consumatori in giro per il mondo, evitando al colosso dell’abbigliamento sportivo il rischio di subire una grande svalutazione sulle scorte del prodotto ancora detenute.

Lo riporta il Financial Times, specificando che al 2 giugno la società tedesca aveva ricevuto ordini per un totale di oltre 508 milioni per circa 4 milioni di paia di scarpe da ginnastica, una domanda tale da mettere l’azienda nelle condizioni di non soddisfarne alcune. Per effettuare i propri ordini, i clienti erano stati chiamati a registrarsi online in anticipo e inviare le proprie richieste per modelli specifici. Il tutto a distanza di mesi da ottobre, mese che aveva segnato la fine della collaborazione tra Adidas e il rapper, oggi noto come Ye, in seguito alla sua pubblicazione sui social di contenuti antisemiti.

Nonostante le motivazioni del divorzio, il colosso dell’abbigliamento sportivo ha valutato nei sette mesi successivi allo stop alle vendite delle scarpe che distruggere il proprio inventario Yeezy sarebbe costato circa 500 milioni di euro e maturato dunque la scelta di riproporlo al pubblico, prevedendo la donazione di una buona parte dei proventi a enti di beneficienza che combattono il razzismo e l’antisemitismo.

La forte domanda, che è andata oltre le aspettative di Adidas, ha cancellato le preoccupazioni riguardo alla possibile tossicità elevata del marchio Yeezy dopo le uscite pubbliche di Ye di fine 2022. Una consolazione minima, considerando che tra il 2015 e il 2022 la partnership con Kanye West aveva generato per la società di Herzogenaurach 1,7 miliardi di euro di vendite e quasi 700 milioni di utile operativo.

Oltre agli enti di beneficenza selezionati, a cui dovrebbero essere destinati oltre 8,5 milioni di euro, altre quote dell’incasso realizzato da Adidas andranno a coprire le royalty di Ye e i costi derivati dall’interruzione della partnership, in particolare quelli legati al licenziamento del personale, alla fine della produzione e alle spese legali.



[Fonte Wired.it]

Alzheimer, uno studio italiano dimostra come il caffè ci può proteggere dalla malattia
| Wired Italia

Alzheimer, uno studio italiano dimostra come il caffè ci può proteggere dalla malattia | Wired Italia



Da Wired.it :

Sebbene l’origine esatta della malattia di Alzheimer non sia ancora chiara, sappiamo tuttavia che l’accumulo eccessivo della proteina tau svolge un ruolo importante nello sviluppo di questa patologia. A proteggere il cervello dalla formazione di queste aggregazione potrebbe però pensarci il caffè che, secondo una nuova ricerca dell’Università di Verona, avrebbe un effetto protettivo contro il declino cognitivo tipico della malattia. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Agricultural and Food Chemistry.

Il ruolo del caffè

Che il caffè fosse un alleato contro la malattia di Alzheimer non è un novità. Diverse ricerche precedenti, infatti, hanno già suggerito come il caffè, e in particolare la caffeina, possa avere alcuni benefici contro alcune malattie neurodegenerative, prevenendo l’aggregazione delle proteina tau nel cervello e riducendo così i sintomi della malattia. Come vi abbiamo raccontato, per esempio, alcune revisioni hanno mostrato che per alcune patologie neurologiche, come appunto l’Alzheimer e il Parkinson, il caffè fosse correlato a effetti protettivi, miglioramenti e riduzione nel rischio di soffrirne.

Lo studio

In questo nuovo studio, i ricercatori si sono concentrati sulla composizione chimica del caffè, servendosi della spettroscopia di risonanza magnetica nucleare, una tecnica in cui i campi magnetici possono controllare e analizzare le sostanze a livello atomico. Gli ingredienti chiave, ossia caffeina, trigonellina, genisteina e teobromina, sono stati così incubati insieme alla proteina tau per 40 ore. Dalle successive analisi è emerso che con l’aumentare della concentrazione di caffeina, genisteina o dell’intero estratto di caffè espresso, gli aggregati di tau si sono accorciati. Inoltre, gli esperimenti hanno mostrato che questi non erano tossici per le cellule e non hanno agito inducendo un’ulteriore aggregazione.

Una protezione contro l’Alzheimer

Ovviamente, applicare i composti del caffè direttamente alle proteine tau non è come bere semplicemente un’espresso. Questa bevanda, infatti, viene prima elaborata nei nostri sistemi digestivi e, sebbene sia noto che alcuni di questi composti attraversino la barriera emato-encefalica, come la caffeina, molte altre complesse interazioni chimiche all’interno del nostro organismo potrebbero non rendere questi effetti così efficaci. Sebbene, quindi, ci sia ancora molto lavoro da fare, i risultati del nuovo studio possono aprire la strada allo sviluppo di trattamenti preventivi o terapeutici per l’Alzheimer e altre malattie in cui la capacità cognitiva è compromessa. “Questi risultati aggiungono informazioni sul potenziale neuroprotettivo del caffè espresso e suggeriscono strutture molecolari candidate per la progettazione di terapie mirate a forme monomeriche o fibrillizzate della proteina tau”, si legge nello studio.



[Fonte Wired.it]

Game of Thrones, un fan ha chiesto all’intelligenza artificiale di scrivere il romanzo finale. Ed è piaciuto a tutti
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Game of Thrones, un fan ha chiesto all’intelligenza artificiale di scrivere il romanzo finale. Ed è piaciuto a tutti | Wired Italia



Da Wired.it :

La saga di Game of Thrones non ha ancora incontrato il suo finale sulle pagine dei romanzi creati da George RR Martin, così ci hanno pensato i fan ricorrendo all’aiuto dell’intelligenza artificiale. La fonte della popolare serie fantasy trasmessa in Italia da Sky (e in patria da Hbo), ovvero il ciclo di libri di Le cronache del ghiaccio e del fuoco, è infatti attualmente incompleta, e i suoi lettori attendono da oltre un decennio il prossimo capitolo. Liam Swayne, di GitHub, si è rivolto all’intelligenza artificiale per realizzare gli ultimi due libri della saga ricorrendo a ChatGPT per abbozzare i contorni di The Winds of Winter e A Dream of Spring, e poi ha spinto l’intelligenza artificiale a caratterizzare ogni capitolo con lo stile di scrittura di Martin.

Tra i punti più interessanti creati dal chatbot di apprendimento automatico sviluppato da OpenAi è la scelta di risparmiare la morte dei personaggi principali, un’anomalia considerando la nota imprevedibilità del destino dei personaggi della serie, che spesso ha assunto i toni di una vera e propria strage. I lettori hanno comunque giudicato il finale scelto dall’opera dell’Ai coinvolgente e autentico.

Lo stato perenne di attesa della conclusione letteraria è intensificato dalla conclusione polarizzante dell’adattamento televisivo: l’ottava stagione di Game of Thrones, infatti, è stata un viaggio tumultuoso, criticato e per molti deludente, culminato nella disfatta di personaggi amatissimi dal pubblico come Daenerys Targaryen, la sorprendente ascesa di Bran Stark, e il fato di Jon Snow. George RR Martin, l’autore di fantasy che ha dato vita al mondo medievale magico e bellicoso di Westeros, è stato notoriamente silenzioso riguardo alla progressione di The Winds of Winter. Un accenno allo sviluppo in corso è emerso in un post sul blog, ma le notizie sul capitale finale rimangono elusive. Vale la pena notare, tuttavia, che Martin non è stato del tutto assente dalla scena. Ha scritto altri racconti ambientati nel vasto mondo di Westeros e si è occupato della produzione della serie prequel di Il trono di spade, House of the Dragon.



[Fonte Wired.it]

Twitter diventa X, addio anche al celebre logo
| Wired Italia

Twitter diventa X, addio anche al celebre logo | Wired Italia



Da Wired.it :

Prosegue il lavoro di profondo rinnovamento di Twitter da parte di Elon Musk, che nella serata di ieri 23 luglio ha pubblicato una sorta di video teaser della prossima novità del social network, ovvero il cambio di logo e nome in una X. Come ampiamente anticipato, il celebre uccellino blu, simbolo del portale sin dalla sua creazione, è dunque pronto al pensionamento per seguire a spron battuto il sentiero tracciato che porta a una super-app tuttofare. Un’applicazione che prende come ispirazione la ben nota cinese WeChat di Tencent, così da essere anche in grado di gestire pagamenti, servizi di e-banking e ampliare le capacità commerciali.

Twitter aveva acquistato il logo dell’uccellino blu per una somma di circa 15 dollari su iStock nel 2006, per poi ridisegnarlo nel 2012: dopo una brevissima parentesi con il mitologico Doge, il nuovo simbolo sarà una X stilizzata e minimalista. E “Art déco”, come descritta dallo stesso Elon Musk: al momento della stesura di questo articolo, c’è ancora l’uccellino blu, ma la transizione dovrebbe avvenire nelle prossime ore in modo definitivo.

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[Fonte Wired.it]

Coscienza, perché non ne sappiamo ancora abbastanza
| Wired Italia

Coscienza, perché non ne sappiamo ancora abbastanza | Wired Italia



Da Wired.it :

È il 1998 e siamo a Brema, in Germania: al termine di una conferenza sulla coscienza, il neuroscienziato Christof Koch scommette con il filosofo David Chalmers che, entro venticinque anni, si sarebbero finalmente scoperti i meccanismi e i neuroni specifici con cui il cervello produce quello stato grazie al quale una persona sente tutte le proprie esperienze. In palio una cassa di vino e, ovviamente, la soddisfazione di essere riusciti a carpire come funzioni la cosiddetta “esperienza soggettiva della mente”. Gli anni sono passati, le metodiche di ricerca e le teorie sulle basi neurali della coscienza si sono moltiplicate, ma per il momento è Chalmers ad aver vinto la scommessa: come riporta un articolo comparso recentemente su Nature.com, durante la riunione annuale dell’Associazione per lo studio scientifico della coscienza tenutasi lo scorso giugno a New York, entrambi i ricercatori, che nel frattempo sono diventati tra i principali esperti mondiali in tema di coscienza, hanno affermato pubblicamente che si tratta di una ricerca ancora in corso. In particolare, infatti, durante l’incontro a New York sono stati presentati i risultati – non ancora sottoposti a revisione tra pari – di uno studio che ha testato due delle teorie della coscienza al momento più accreditate e che però non hanno confermato nessuna delle due in maniera univoca. Pertanto, non si può ancora dire di aver individuato i meccanismi grazie ai quali i neuroni del nostro cervello producono lo stato di coscienza. Tuttavia, la partita è ancora aperta: come sottolinea Chalmers, fresco di “vincita”, nel campo ci sono stati e continuano a esserci numerosi progressi, mentre nel frattempo Koch ha rilanciato la posta in gioco, proponendo una nuova scommessa.

Un problema di vecchia data

Prima di addentrarci nei dettagli della questione, facciamo un passo indietro. Che cosa indagano i ricercatori che si occupano di coscienza – o meglio, si può dare una definizione di coscienza? Come riporta una review della letteratura scientifica pubblicata su Nature reviews neuroscience, a firma proprio di Koch, essere coscienti significa che si sta vivendo un’esperienza: è sperimentare “com’è”, per esempio, il vedere un’immagine, sentire un suono, formulare un pensiero o provare un’emozione. In particolare, sebbene le nostre esperienze di veglia cosciente solitamente abbiano come oggetto il mondo che ci circonda, continuiamo a essere coscienti anche quando non facciamo caso a stimoli esterni, oppure, durante il sonno, se sogniamo. D’altro canto, la coscienza svanisce solo durante il sonno senza sogni o in anestesia generale: in quei momenti tutto scompare dalla nostra prospettiva e non sperimentiamo più nulla. Si tratta – forse – di una delle caratteristiche che ci definisce in quanto esseri umani (anche se, a determinati livelli, la coscienza sarebbe propria anche di diversi altri animali); se, per esempio, anche un robot può rilevare inconsciamente condizioni esterne come colore, temperatura o suono – ha affermato qualche anno fa a Nature.com Matthias Michel, filosofo della scienza dell’Università della Sorbona di Parigi – la coscienza descrive la sensazione qualitativa associata a tali percezioni, insieme a processi più profondi di riflessione, comunicazione e pensiero. Non stupisce, quindi, che l’indagine sulla natura e l’origine della coscienza sia da sempre un tema molto caro ai ricercatori.

La genesi della scommessa

Che l’esistenza della coscienza fosse un enigma di lunga durata, infatti, non è difficile immaginarlo, ma le basi della scommessa del 1998 vengono poste all’inizio degli anni Ottanta, quando un gruppo di neuroscienziati e biologi molecolari (tra cui lo stesso Koch e anche Francis Crick, noto per aver contribuito, trent’anni prima, alla scoperta della struttura del dna) iniziano a indagare i meccanismi nel cervello associati all’elaborazione cosciente delle informazioni. In particolare, gli scienziati cercavano i cosiddetti “correlati neurali della coscienza”, ovvero l’insieme minimo di eventi che devono avvenire nello stesso momento all’interno del cervello (a carico di uno specifico gruppo di neuroni o di una specifica struttura cerebrale) perché si abbia un’esperienza cosciente: insomma, una sorta di firma minima della coscienza a livello delle strutture cerebrali. La ricerca su questi meccanismi ebbe un’enorme spinta alla fine del secolo scorso soprattutto grazie ai progressi tecnologici nell’ambito dello studio del cervello: dalla crescente disponibilità di tecniche come la risonanza magnetica funzionale, che misura i piccoli cambiamenti nel flusso sanguigno che si verificano con l’attività cerebrale, all’elettroencefalografia, fino ad arrivare all’optogenetica, che permette di stimolare specifici circuiti neuronali nel cervello di animali in determinate condizioni, studiare il cervello da un punto di vista biologico e funzionale diventava sempre più agevole.

Questi avanzamenti scientifici e tecnologici rendevano i ricercatori che si occupavano della coscienza piuttosto ottimisti: come riporta il giornalista scientifico Per Snaprud in un articolo del 2018 pubblicato su New Scientist, i correlati neurali di coscienza erano proprio l’argomento della presentazione di Koch alla conferenza di Brema del 1998. In particolare, in quel momento le strutture e gli eventi neurali considerati attori chiave nei processi biologici della coscienza erano soprattutto tre: una popolazione di neuroni della corteccia visiva (la porzione esterna del cervello deputata all’elaborazione delle informazioni visive) capaci di emettere scariche elettriche a bassa frequenza (nell’ordine di 30-70 hertz) in maniera sincronizzata e ritmica, un tipo particolare di neuroni della corteccia cerebrale chiamate cellule piramidali, normalmente implicate nei processi cognitivi, e il cosiddetto claustrum, un sottile foglio di cellule al di sotto della corteccia cerebrale interconnesso a essa, che si pensava potesse svolgere un ruolo fondamentale nell’integrazione delle informazioni che portano all’esperienza cosciente. Queste ipotesi derivavano proprio dai primi, incoraggianti risultati ottenuti dalla ricerca sistematica sui correlati neurali della coscienza: considerando i progressi tecnologici dell’epoca, secondo Koch sarebbe stato semplice, in un futuro molto vicino, trovare un piccolo insieme di neuroni caratterizzato da poche e specifiche proprietà intrinseche (come un certo schema di attivazione elettrica o l’espressione di determinati geni in grado di regolare la produzione di vari neurotrasmettitori) che fosse correlato direttamente con la produzione dello stato di coscienza; il tutto, ovviamente, entro 25 anni. Eppure, le cose non sono andate come lo scienziato si auspicava.

Dalle proprietà dei neuroni alle teorie della coscienza

Come sottolinea un recente articolo pubblicato su Nature reviews neuroscience, infatti, sebbene la ricerca sui correlati neurali della coscienza sia stata estremamente utile per aver fornito un linguaggio e metodologie comuni per i ricercatori che indagano questo campo, nel corso degli anni essa ha presentato diversi limiti, soprattutto per la difficoltà nel distinguere ciò che può essere considerato una caratteristica intrinseca del processo cosciente da condizioni che prescindono lo stato di coscienza stesso. Di conseguenza, negli ultimi decenni è aumentato l’interesse nello sviluppo di teorie della coscienza, che possano offrire spiegazioni più approfondite al riguardo e che si concentrino, più che sulle caratteristiche delle singole cellule, sui rapporti tra le reti di neuroni all’interno del cervello: al momento, tra le più accreditate vi sono la cosiddetta teoria dello spazio di lavoro neuronale globale e la teoria dell’informazione integrata.

Vediamole più nel dettaglio: la teoria dello spazio di lavoro neuronale globale suggerisce che ciò che sperimentiamo come stato cosciente in un dato momento, in realtà è la trasmissione e l’amplificazione delle informazioni attraverso una rete interconnessa di aree cerebrali comprese tra la corteccia cerebrale e il talamo. In particolare, secondo questa teoria, se un segnale proveniente dall’esterno riesce ad attivare una particolare area (chiamata appunto spazio di lavoro neuronale globale e costituita da neuroni posizionati soprattutto nella corteccia pre-frontale, che trasmettono informazioni attraverso connessioni a lungo raggio), esso diventa un’informazione oggetto di consapevolezza e inizia a far parte dell’esperienza cosciente. Di contro, altre teorie partono da un differente approccio, suggerendo che la coscienza sia il risultato dell’informazione che viene combinata in modo sinergico, superando la somma delle singole parti anatomiche e funzionali. La teoria dell’informazione integrata appartiene a questa visione, in quanto propone che la coscienza sia una “struttura” nel cervello formata da un tipo specifico di connettività neuronale, che rimane attiva finché si verifica una certa esperienza. Secondo questa teoria, il grado di coscienza di qualsiasi sistema può essere misurato da un parametro fisico (detto phi), mentre dal punto di vista anatomico sarebbe correlata alla coscienza la parte posteriore della corteccia cerebrale.

I risultati dello studio e il futuro

L’obiettivo principale delle ricerche in questo ambito, alla fine, è quello di avere una teoria della coscienza validata da un punto di vista empirico: eppure, man mano che si accumulano dati sperimentali, anche grazie alle tecnologie che decenni fa avevano guidato gli studi sui correlati neurali della coscienza, sembra che queste teorie si stiano moltiplicando. Tutto questo ha portato i ricercatori a diversi tentativi di integrazione, ma anche allo sviluppo delle cosiddette “collaborazioni contraddittorie”, in cui i sostenitori di teorie concorrenti concordano in anticipo un esperimento i cui risultati dovrebbero avvalorarle o minarle. È quanto accaduto in questo caso: per far progredire la ricerca sulla coscienza, infatti, la Templeton world charity foundation ha promosso un progetto di collaborazione contraddittoria in cui i sostenitori della teoria dell’informazione integrata e quelli dello spazio di lavoro neuronale globale hanno impostato e preregistrato un protocollo di studio in grado di mettere alla prova entrambe le teorie. In particolare, sei laboratori diversi e indipendenti hanno eseguito gli esperimenti messi a punto dagli scienziati, che prevedevano l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, la magneto-elettroencefalografia e l’elettroencefalografia per misurare l’attività delle varie aree del cervello legate all’esperienza cosciente della visione.

Per quanto riguarda la teoria dell’informazione integrata, ciò che abbiamo osservato è che in effetti le aree nella corteccia posteriore contengono informazioni in modo sostenuto“, afferma a Nature.com Lucia Melloni, neuroscienziata del Max Planck Institute for Empirical aesthetics di Francoforte, in Germania, che ha preso parte allo studio. Nonostante ciò sembri suggerire che la struttura postulata da questa teoria esista, i ricercatori non hanno trovato prove di una sincronizzazione prolungata tra le aree del cervello, come era invece previsto. Anche la prova della teoria dello spazio di lavoro neuronale globale ha dato risultati contrastanti, anche più marcatamente dell’altra: in particolare, gli scienziati hanno trovato che sì, alcuni aspetti della coscienza potevano essere individuati nella corteccia prefrontale, come teorizzato, ma non tutti; inoltre la trasmissione di informazioni postulata dalla teoria è stata individuata solo all’inizio di un’esperienza e non anche alla fine, come invece era stato teorizzato.

Insomma, gli scienziati dovrebbero ripensare i meccanismi alla base delle teorie della coscienza proposti alla luce sia di questi nuovi risultati, sia degli altri esperimenti che sono in corso al momento. In effetti, gli studi sulla coscienza proseguono: sempre nell’ambito del progetto della Templeton world charity foundation, infatti, Koch starebbe testando le due teorie nel cervello di modelli animali, mentre Chalmers attualmente starebbe valutando altre ipotesi di coscienza. E la scommessa? Incalzato da Nature.com, Koch ha ammesso a malincuore di aver perso (onorando anche la parola data e regalando al suo avversario una cassa di vino proprio durante l’incontro a New York), ma non demorde.



[Fonte Wired.it]

Vaccini, che fine ha fatto l’anagrafe nazionale?
| Wired Italia

Vaccini, che fine ha fatto l’anagrafe nazionale? | Wired Italia



Da Wired.it :

Un’elaborazione, quest’ultima, che ora dovrebbe essere possibile realizzare attraverso l’anagrafe vaccinale, senza che sia più necessario raccogliere i dati dalle singole Asl. Dovrebbe, appunto. Lo scorso 18 maggio, infatti, Wired ha trasmesso al ministero della Salute un’istanza di accesso generalizzato. Ha cioè chiesto di entrare in possesso dei dati relativi alle coperture vaccinali a 24 mesi (età nella quale si è stati sottoposti ad almeno una dose di tutti i vaccini obbligatori per legge, ndr) per i nati nel 2020 su base comunale.

Una richiesta che nasceva da due considerazioni: la prima riguarda l’eccezionalità del 2020. L’idea era quella di capire se ci fossero stati cali nelle coperture dovuti alla pandemia. La seconda, appunto, quella di verificare che i dati fossero disponibili con un dettaglio territoriale significativo. Su entrambi i fronti, però, la risposta del ministero è stata negativa.

Il rifiuto del ministero

Il dicastero oggi affidato a Orazio Schillaci non ha risposto entro i 30 giorni previsti dalla norma sull’accesso generalizzato. È stato necessario chiedere un riesame al responsabile della trasparenza Alfredo D’Ari per ottenere un riscontro. Quest’ultimo lo scorso 11 luglio ha risposto a Wired spiegando che “le coperture vaccinali per i bambini nati nel 2020 non sono ancora state pubblicate”.

Ma non solo: L’anagrafe nazionale vaccini ha il compito di elaborare i dati relativi alle coperture vaccinali a livello regionale e non comunale”. E per questo l’istanza è stata respinta. Eppure i dati ci sono, come dimostra il fatto che dal 2019 i genitori non devono più presentare il certificato vaccinale dei propri figli per iscriverli a scuola. Sono infatti direttamente le Asl a segnalare l’adempienza o meno all’obbligo direttamente agli istituti scolastici.

Le questioni aperte

La risposta del ministero della Salute solleva però alcune questioni. La prima e più semplice riguarda la data di pubblicazione dei dati di copertura a 24 mesi relativi alla corte di nascita 2020. Bambini che hanno ricevuto i vaccini per i quali Wired ha chiesto i dati entro il 31 dicembre 2022, al più tardi nelle prime settimane di gennaio.

La seconda riguarda invece il fatto che si sia costituita un’anagrafe nazionale vaccini, costata 300mila euro nel 2018 più 10mila euro l’anno per i successivi, per continuare ad avere dati su base regionale. In un paese in cui una regione come la Valle d’Aosta ha gli stessi abitanti della città di Bergamo, una come il Friuli Venezia Giulia tanto quanto la provincia di Bergamo. E dove in una regione come la Lombardia vive un sesto di tutti gli italiani. Quando l’idea di un’anagrafe dei vaccini è quella di verificare, a fronte dell’insorgenza di un picco di casi di una malattia (tanto più possibile quanto più basse sono le coperture, ndr), le dimensioni della popolazione suscettibile ad esempio all’interno di una singola scuola.



[Fonte Wired.it]