C’era una volta in America compie 40 anni, lo fa forte di una posizione da protagonista nella storia del cinema, qualcosa che quando uscì in sala all’epoca, nessuno avrebbe minimamente pensato. Fu un clamoroso insuccesso al botteghino negli Stati Uniti, un durissimo colpo per Sergio Leone, a causa del montaggio criminale deciso dal produttore Arnon Milchan. Per fortuna i 229 minuti integrali che il resto del mondo vide, bastarono a sentenziarne il rango di capolavoro assoluto. Noodles, Max, Deborah, non gli abbiamo mai più dimenticati, era impossibile.
Un gioiello quasi distrutto dalla sfiducia del produttore
C’era una volta in America fu il frutto di un lavoro pluridecennale da parte di Sergio Leone. Già mentre con i suoi spaghetti western incontrava un grande successo, Leone continuava a pensare ad un gangster movie, ma si mosse con maggior decisione dopo Giù la Testa, decidendo di trarre spunto da The Hoods un romanzo semi-autobiografico di Harry Grey, ex gangster. La sceneggiatura sarebbe stata una delle più complesse che si fossero viste in quegli anni. Oltre a Leonardo Benvenuti, Enrico Medioli, Piero De Bernardi, Franco Arcalli e Franco Ferrini, C’era una volta in America era connesso anche ad alcune idee di Norman Mailer. Con 30 milioni di dollari di budget (moltissimo all’epoca) Leone cominciò a girare alternandosi tra Stati Uniti e Europa, insomma ovunque vi fosse un luogo adatto per ricreare quel racconto, per sviluppare il quale Sergio Leone rinuncio anche a dirigere Il Padrino.
C’era una volta in America fu un lavoro gigantesco di cui Sergio Leone curò ogni minimo dettaglio, arrivando complessivamente a quattro ore e mezza di girato. Proprio la fase di montaggio finale si rivelò problematica, soprattutto per le ingerenze del produttore Arnon Milchan, che non avevano molta fiducia nella struttura narrativa atipica che Leone aveva delineato e che rende ancora oggi in realtà C’era una volta in America un vero e proprio gioiello concettuale. Leone infatti concepì un racconto privo di una chiara direzione spazio-temporale, in cui pure la definizione di flashback e flashforward è limitante per descrivere Noodles e la sua epopea. Dall’epoca dei gangster del proibizionismo, si spinge alla fine degli anni ‘60, ci riporta nei primi anni ’10, nella New York sommersa dalle ondate migratorie, tra italiani, ebrei, irlandesi, tedeschi, polacchi…una babele in cui facciamo la conoscenza di lui, Noodles, costretto ad arrangiarsi come quasi tutti i ragazzi dell’epoca.
C’era una volta in America anticipa la descrizione dell’America nata nelle strade che poi Scorsese avrebbe ripreso in Gangs of New York. Tutto il film in realtà affronta la tematica della memoria. Di base il futuro non esiste, il presente è legato al passato, non gli si può sfuggire, non lo si può sconfiggere. “I vincenti si riconoscono alla partenza. “Riconosci i vincenti e i brocchi” sentenzia Noodles, quando dopo tanti anni torna a New York, dal vecchio Moe, conscio che dal suo passato qualcuno lo ha rintracciato. Lui che guarda dalla feritoia di un vecchio magazzino, che apre uno squarcio sul suo passato, su quella Deborah che ballava per lui e già lo faceva impazzire, su quell’amore che dall’adolescenza lo ha inseguito per tutta la vita è tra le scene più potenti che si siano mai viste. C’è il passato che per Leone è ciò che conta veramente, ed è solo una delle teorie su un film che in realtà, proprio nel finale, può addirittura suggerire che tutto sia stato un allucinazione dell’oppio, cosa che neppure il regista smentì.
La malinconia qui è l’emozione preponderante, quella con cui C’era una volta in America rivendica la sua essenza di racconto distante dalla razionalità. Questo è un racconto di come l’emotività sia l’unica, vera realtà a cui noi rispondiamo, il motore delle nostre azioni. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza un cast straordinario, impareggiabile per quei tempi. Robert De Niro e James Woods sono il doppio pilastro su cui si inserisce un racconto di grande amicizia virile, ma anche di tradimento, violenza, lealtà, egoismo, rimpianti e morte. A supportare il tutto, le note di un Ennio Morricone stratosferico. Mai in nessun altro film una colonna sonora è stata capace di essere così protagonista, di connettersi alla finalità semantica di un film. Il suo lavoro più complesso, più grande e più importante. Ancora oggi ascolta il Tema di Deborah, Amapola, la canzone di Cockeye, Morricone accende qualcosa nell’anima di familiare e assieme inspiegabile.
Un vibrante caleidoscopio di suoni, immagini ed emozioni
C’era una volta in America è film di formazione, affresco storico, neo noir, melodramma e tragedia classica. Semplicemente ipnotico dal punto di vista visivo, con squarci strazianti per la bellezza con cui rende città, bar, ristoranti cuore pulsante dell’iter, unisce in sé il mito del gangsterismo dell’America, con la narrativa di un Dickens, Mòlnar, Twain, Shakespeare. Il sogno americano per Leone è fatto di spietatezza, opportunismo e corruzione, di cui è Max il simbolo. Leone gioca con le emozioni dei suoi personaggi e quindi quelle del pubblico, che si affeziona a Nooldes, Max, Cockeye, Patsy, Moe, amici che paiono legati da un patto indissolubile, sembrano dei ragazzi qualunque. Poi però ecco che li vediamo diventare assassini a sangue freddo, sono e restano criminali, conoscono solo la legge della violenza, non hanno empatia e non hanno alcuna pietà per sé stessi o gli altri.