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sabato, Apr 04

Che cosa è successo davvero alla civiltà dell’Isola di Pasqua?



Da Wired.it :

Isola di Pasqua
(foto: Jeff Tzu-chao Lin/Corbis Images)

All’inizio di marzo un furgone ha travolto e distrutto un moai, una delle iconiche e inestimabili statue dell’Isola di Pasqua. Pochi giorni fa abbiamo anche scoperto che il coronavirus era riuscito a raggiungere e a diffondersi su quell’isola. A ben vedere tutto è cominciato il 5 aprile 1722, quando l’olandese Jacob Roggeveen, con una spedizione finanziata dai mercanti di spezie, metteva piede su un’isola del Pacifico sconosciuta agli europei. Visto che era la domenica di Pasqua l’esploratore le assegnò, con molta fantasia, il nome con cui è più nota ancora oggi. Da subito il contatto col mondo civilizzato non portò grande fortuna alla popolazione indigena residua, che venne razziata e decimata da malattie a loro sconosciute, come il vaiolo.

Dal Ventesimo secolo l’isola di Pasqua e la sua civiltà sono molto discusse non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da un esercito di autori e divulgatori più o meno seri che hanno fatto conoscere l’isola e i suoi moai al mondo intero. Alcuni di questi si sono buttati sul paranormale, altri hanno usato l’isola come una metafora dell’intero pianeta Terra, ma non tutti sono d’accordo con questa visione.

Rapa Nui e i messaggeri dello spazio

Oggi in pochi conoscono Erich von Däniken, ma è stato lo scrittore che diede nuova vita a molti miti pseudoarcheologici. Sosteneva che la civiltà dell’Isola di Pasqua, quella che aveva costruito i moai, doveva essere venuta in contatto con gli alieni. Von Däniken scriveva negli anni Sessanta, quando il fenomeno ufo era relativamente giovane e anche alcuni scienziati cercavano di capire come mai tante persone vedevano oggetti in cielo che non riconoscevano. Non ci si deve stupire troppo se libri come i suoi ebbero tanto successo al tempo. Non solo: l’idea degli antichi astronauti, cioè una civiltà avanzatissima che incontra e ispira quelle del nostro passato, è ben più antica. Come ha spiegato lo storico della scienza Marco Ciardi in Il mistero degli antichi astronauti (Carocci, 2017) le sue radici affondano nel XIX secolo e nell’uso che le dottrine teosofiche fecero del mito di Atlantide. Insomma, era una storia già ben rodata, e von Däniken era un passabile artigiano. Questo può, almeno in parte, spiegare anche perché gli antichi astronauti sono ancora oggi protagonisti di documentari sensazionalistici, o sono usati da sceneggiatori pigri.

Nel caso di Rapa Nui (questo il nome dell’isola per gli abitanti) von Däniken speculava che un gruppo di extraterrestri si fosse arenato sull’isola. Cominciarono a istruire i nativi e, grazie alla loro superiore tecnologia, cominciarono a costruire i moai. Forse un modo di segnalare ad altri della loro specie che erano passati di lì? È superfluo dire che lo scrittore non portava nessuna prova, né si basava su lavori scientifici, ma è invece interessante il pregiudizio da cui partiva: gli indigeni, qualunque essi fossero non potevano essere stati in grado di fare quei monumenti. Avevano bisogno che un colonizzatore (in questo caso extraterrestre) svelasse loro qualcosa.

La parabola dell’ecocidio

Nel libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi, 2005) il grande divulgatore e geografo Jared Diamond cita bonariamente von Däniken spiegando che non c’è bisogno di invocare gli extraterrestri per i moai. Sculture simili sono diffuse in Polinesia, dalla quale partirono i primi coloni. Nelle cave di Rapa Nui, sono stati trovati alcuni degli strumenti usati, e così via. Ma oggi è proprio Jared Diamond a trovarsi un po’ sotto assedio per la narrazione dell’isola che più di ogni altro ha contribuito a forgiare: quella dell’ecocidio. In breve: i primi esseri umani arrivarono sull’isola tra il 300 d.C. e il 1200. In pochi secoli svilupparono una società avanzata, capace di erigere i moai. Ma l’isola, grande solo 170 chilometri quadrati era un ecosistema fragile, che gli abitanti non sfruttarono in modo sostenibile. Per esempio, avrebbero tagliato tutti gli alberi proprio per spostare i giganteschi moai, attirando su di loro la rovina.

Meno alberi portarono a più erosione del suolo, quindi meno cibo da coltivare. L’esaurimento delle risorse portò quindi a guerre e carestie (addirittura al cannibalismo!), che fecero collassare la civiltà a una frazione di quella originaria. Gli europei incontrarono proprio questi superstiti. È facile in tutto questo vedere l’isola come una provetta rappresentativa del pianeta Terra, dove in scala ridotta è stato dimostrato il drammatico epilogo a cui ogni civiltà potrebbe essere portata quando ignora l’ambiente. Ma è davvero quello che è successo all’isola?

Un’altra storia per l’Isola di Pasqua

A differenza di von Däniken e altri ciarlatani, Diamond e gli scienziati a cui dà voce nei suoi libri portano molte prove e argomentazioni a supporto della teoria del collasso. Eppure diversi addetti ai lavori non sono d’accordo. A febbraio è stato pubblicato l’ennesimo studio che racconta una storia diversa. Riassumendo: non c’è stato alcun collasso della civiltà prima dell’arrivo degli europei. E anche dopo sull’isola si sarebbero mantenute per qualche tempo le stesse tradizioni, compresa la costruzione di monumenti, nonostante l’esportazione di schiavi e l’importazione di omicidi e malattie. Sappiamo che sull’isola ci sono stati cambiamenti all’ambiente causati anche dagli esseri umani che ci abitavano, ma non si vedrebbe a livello archeologico la spettacolare autodistruzione della civiltà descritta finora. Era una società quindi molto più resiliente di quello che siamo abituati a pensare.

Quest’ultimo studio è firmato da due archeologi, Terry Hunt e Carl Lipo, che da sempre sono i più critici verso la narrazione di Diamond. Su Wired per esempio avevamo parlato di un loro studio che sembrava smentire le guerre civili scoppiate su Rapa Nui. Le presunte punte di freccia trovate in massa sull’isola erano probabilmente normali strumenti di ossidiana, del tutto inadatti a uccidere.

Tuttavia diversi altri autori hanno pubblicato lavori che vanno nella stessa direzione. Per esempio un altro gruppo ha stimato che l’isola, all’arrivo degli europei, poteva teoricamente sostenere una popolazione più elevata di quella presente, nonostante la deforestazione. Su quest’ultima invece c’è chi evidenzia che è stata più graduale di quello che pensavamo: non tutte le aree sono state tagliate allo stesso modo nello stesso tempo. Alla scomparsa delle foreste avrebbero poi contribuito altri fattori, tra cui una specie invasiva (un ratto) portato dalla Polinesia e ondate di siccità, ma che in ogni caso non avrebbero causato il collasso.

Scienza e politica

È facile mettere d’accordo gli esperti sugli alieni, meno sulla complessa storia di un popolo e sulla sua narrazione. La versione di Diamond è da sempre molto popolare, ed è inutile nascondere che lo è per ragioni che vanno al di là dell’archeologia e della geografia. Comunicare i problemi ambientali è difficile, e l’Isola di Pasqua può venirci in soccorso offrendo un esempio concreto sul valore della sostenibilità e sulla fragilità delle società che decidono di ignorarlo.

Oggi anche la versione revisionista, per così dire, ha guadagnato terreno, ed è sempre più citata anche nei documentari. Al tempo stesso è stata fatta propria (opportunisticamente) anche da personaggi lontani dalla scienza come i negazionisti climatici. La loro propaganda è infatti dedicata a dipingere come catastrofista chiunque segua il consenso scientifico sul clima. Non si può dire però che esista un analogo consenso in merito a quello è successo sull’Isola di Pasqua.

Come ha spiegato l’antropologo Christopher Kavanagh quando uscì lo studio sulle punte di freccia, è importante capire le forze in gioco nella disseminazione dei risultati scientifici. Oggi la versione revisionista potrebbe attrarci di più di quella di Diamond, perché identifica chiaramente la responsabilità dei colonizzatori europei. Al contrario è facile vedere Diamond (autore controverso e già molto criticato) come simbolo di un’elite accademica che ha colpevolizzato le vittime: non solo abbiamo distrutto noi una civiltà, ma ora diciamo che è stata la loro mancanza di coscienza ambientale a farlo e la usiamo come lezione.

C’è quindi un’enorme carica politica su questo dibattito scientifico, che rimane a tutti gli effetti aperto. E forse non si arriverà mai a una conclusione netta che escluda o certifichi il collasso guidato dall’ambiente. Scriveva Kavanagh: “Autori, lettori, ricercatori e scienziati devono riconoscere che la maggior parte delle domande che vale la pena fare richiedono risposte complesse, che non possono essere fornite da un singolo studio, indipendentemente dal fatto che ci piaccia o meno la narrazione che supporta.”

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[Fonte Wired.it]