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martedì, Ott 13

Che cos’è davvero la pubblicità politica sui social network?



Da Wired.it :

Le political ads sono diventate un elemento essenziale dell’ecosistema informativo, tanto da poter indirizza il pubblico: ma cosa è “politica” e cosa no? Dipende innanzitutto dalla piattaforma che ospita le inserzioni

La sezione 203 del Communications Decency Act è uno degli strumenti più preziosi per proteggere la libertà di espressione in America. Fu pensato per favorire l’innovazione tecnologica, e in particolare per “accelerare la rapida diffusione di compagnie e aziende private nel settore tecnologico”. Protegge le piattaforme dai contenuti pubblicati da terze parti, ovvero dalle idee espresse dai propri utenti. Per capirne l’importanza, se il Decency Act non ci fosse, Facebook, Twitter o Google dovrebbero verificare e moderare qualsiasi informazione che viene prodotta, pena la possibilità di essere legalmente perseguibili.

Tuttavia le cose potrebbero cambiare. A meno di un mese dalle elezioni il congresso ha convocato di nuovo i Ceo delle maggiori piattaforme tecnologiche per ridiscutere le loro responsabilità, e in particolare la sezione 203. Secondo quanto sostengono alcuni, il tutto sarebbe stato architettato da Donald Trump per vendicarsi di Twitter, che lo ha censurato lo scorso maggio. Ma mettere in discussione il ruolo delle piattaforme è un’idea che piace a molti, democratici inclusi, come dimostra il rapporto dell’antitrust pubblicato alcuni giorni fa. La vicenda però è più complicata di così, e va oltre gli Stati Uniti. Come ha detto lo scorso giugno Vera Jourova, vicepresidente della Commissione europea, la pandemia “ci ha mostrato come le informazioni false potrebbero causare seri danni, persino uccidere”. E in questo senso non sembra più che limitare gli annunci politici, come ha fatto Twitter, censuri la libertà di parola e di espressione, come invece diceva Mark Zuckerberg alcuni mesi fa. Lo stesso Ceo di Facebook si è detto tanto preoccupato per i disordini civili che potrebbero scoppiare in seguito alle elezioni, da cambiare completamente rotta, e limitare gli annunci politici dal 3 novembre in poi. 

Tutto molto interessante. Però rendere responsabili le piattaforme di quello che pubblicano gli utenti manca il punto. Come ha dimostrato Twitter bisogna agire su un altro piano, e la pubblicità politica è il terreno giusto. Perché la pubblicità rappresenta ormai la fetta maggiore delle entrate dei maggiori colossi tecnologici. Google, ad esempio, guadagna l’80 per cento delle sue entrate dagli annunci, Facebook circa il 99 per cento. Il mercato globale della pubblicità l’anno scorso è stato di 325 miliardi di dollari ed è destinato a crescere ancora. Gli analisti prevedono che raggiungerà quota 525 miliardi entro il 2024. 

Ogni volta che carichi un sito web, scorri una pagina di un social o fai una ricerca su Google, centinaia di migliaia di aziende competono per mostrarti il loro annuncio. Il processo avviene in millisecondi, decine di miliardi di volte ogni giorno. Circa l’86% dello spazio pubblicitario online negli Stati Uniti viene acquistato e venduto in tempo reale sulle piattaforme di trading elettronico. I processi che regolano le aste sono talmente opachi da non avere nulla da invidiare agli odierni mercati finanziari. Basti pensare che un’azienda come Alphabet possiede sia le piattaforme di contrattazione che i maggiori intermediari che regolano l’acquisto o la vendita di uno spazio pubblicitario, ed è essa stessa uno dei maggiori venditori di annunci a livello globale. 

Inoltre da quando lo scandalo di Cambridge Analytica ha portato alla ribalta i moderni processi di targeting, la pubblicità a scopo politico è diventata il capro espiatorio per eccellenza. La possibilità di indirizzare gli annunci solo a determinate persone, di un determinato stato e di una determinata fascia di reddito e di interessi ha portato a gridare al complotto per sabotare la democrazia. A ben vedere, però, le piattaforme di social network definiscono l’annuncio politico quando a pubblicarlo è un personaggio politico. Tuttavia classificare alcuni annunci politici e altri no distoglie l’attenzione e ignora come si formano le opinioni delle persone online: pensate ai meme, ad esempio, che non sono politici ma nel contempo lo sono eccome (l’alt-right l’ha dimostrato). 

Ma facciamo un passo indietro. Il primo annuncio pubblicitario online comparve nel 1994, proprio su Wired, sotto forma di un banner color arcobaleno che recitava: “Hai mai cliccato con il mouse proprio qui?”. Cliccando sul banner si veniva reindirizzati a una delle prima pagine web dell’azienda di telecomunicazione americana AT&T, e da lì ad un tour virtuale dei maggiori musei del mondo. Craig Kanarick, uno dei consulenti assunti per lavorare alla campagna, disse che il loro obiettivo non era quello di vendere qualcosa a qualcuno, quando piuttosto “premiarlo per aver cliccato, regalandogli un esperienza offerta da AT&T”. 

Da allora sono cambiate molte cose. L’obiettivo degli annunci non è solamente quello di concludere una vendita: oggi anche guardare un video o fare clic su una pagina, iscriversi a una newsletter o scaricare una brochure è quantificabile per gli inserzionisti. Per questo motivo il pagamento di un’inserzione non avviene più in modo forfettario, come era avvenuto con Wired nel 1994, ma sulla base di clic e di impressioni. Inoltre da quando i social network hanno dato la possibilità a tutti di essere inserzionisti, le pubblicità sono diventate un elemento essenziale dell’ecosistema informativo, tanto da poterlo influenzare. Ong, governi, ministeri, addirittura l’Istituto superiore di sanità spendono milioni per pubblicizzare i loro annunci, e raggiungere più audience. In questo senso c’è da chiedersi: stiamo ancora parlando di pubblicità?

Da Daisy a oggi

Il 7 settembre del 1964, uno spot di 60 secondi cambiò per sempre la politica americana. Nella pubblicità in questione si vede una bimba contare i petali di una margherita, fino a quando la sua voce non viene soppiantata da un conto alla rovescia e poi un fungo atomico. La réclame era stata finanziata dal Lyndon B. Johnson, e aveva un messaggio semplice anche se implicito: il suo avversario alla presidenza, il repubblicano Barry Goldwater, minacciava il futuro del mondo. Lo spot, conosciuto come Daisy, fu la pubblicità politica più controversa mai girata (forse insieme solo a una molto razzista commissionata da Bush Sr. negli anni ’90). Ma per quanto discussa fosse, chi la vedeva era sicuro di trovarsi di fronte a un annuncio politico. A oggi invece cosa è politico o meno dipende dalla piattaforma che ospita la pubblicità. Ad esempio, Facebook definisce gli annunci di questo tipo come correlati a “questioni sociali, elezioni o politica”. Tuttavia, la categoria ha dovuto essere ampliata per includere gli annunci di persone al di fuori della politica che parlavano di questioni sociali ritenute politiche. In questo senso sono state classificate come “questioni sociali” le posizione espresse dai post di molte aziende e brand a favore del movimento Black Lives Matter. Tuttavia le posizioni espresse sulla società non sono sempre politiche, anche se potrebbero sembrarlo. Cosa è politico, secondo le piattaforme, dipende da paese a paese. Fino a qualche tempo fa, ad esempio, la “criminalità” era inclusa nell’elenco delle questioni sociali nell’Unione europea, ma non in Canada. La “politica ambientale” era una questione politica in Canada e nell’Unione europea, ma non a Singapore. 

Si è creato un vuoto nel discorso politico: vuoto che le aziende stanno iniziando a riempire. Perché nonostante ci siano ancora pubblicitari come Toby Ralph, marketer e stratega australiano, che dicono: “il compito del detersivo per i piatti è quello di pulire i tuoi piatti, e non di prendersi cura della disobbedienza civile”, in molti non sono d’accordo. Eppure se andiamo più a fondo risulta evidente il perché: il sistema premia i contenuti sensazionali e virali e non distingue, in linea generale, tra inserzionisti commerciali e politici. In questo senso la classificazione è il problema.

L’imperativo, quando si parla di pubblicità, è segmentare, indirizzare e personalizzare i messaggi inviati ai singoli individui, dagli orientamenti sessuali degli utenti ai loro stati d’animo e cicli mestruali. Ne consegue che la maggior parte delle brutture in cui le piattaforme sono state coinvolte – aumentare la diffusione di contenuti provocatori, consentire la manipolazione delle elezioni e schiacciare l’industria dei media – derivano da un unico scopo, quello di aumentare le entrate pubblicitarie. Invece che cercare di sistemare tutti questi problemi uno per uno, perché non rimuovere semplicemente l’incentivo finanziario sottostante? 

Il modello di business della pubblicità comportamentale ha dato origine a un ecosistema brulicante di aziende tech specializzate nell’advertising. Perché è tutto perfettamente legale e molto redditizio, il che spiega perché Adobe, Comcast e Amazon vogliano infilarsi nel settore. L’unico motivo per cui queste società stanno raccogliendo, acquistando e anche appropriandosi indebitamente questi dati è perché sono molto preziosi. Se riduci il valore, l’incentivo scompare. 

In un saggio del 2019 realizzato dal Knight First Amendment Institute, Jeff Gary e Ashkan Soltani hanno affermato che “limitare o diminuire” la capacità di micro-targeting degli annunci sarebbe più efficace e solleverebbe meno problemi di libertà di espressione rispetto a qualsiasi discorso di controllo poliziesco online. Facebook ha creato una “macchina di manipolazione” che può essere utilizzata per scoraggiare il voto degli elettori neri con la stessa facilità con cui si si vendono scarpe da ginnastica. 

Se cerco armi su Google, o sui gruppi in cui si vendono armi su Facebook, non sono necessariamente un suprematista bianco. Tuttavia entrambe le piattaforme potrebbero iniziare a suggerirmi post o gruppi razzisti, per via del sistema di raccomandazione che mi consiglia argomenti e annunci correlati sulla base delle mie ricerche. In questo senso classificare alcuni post sulle armi come politici e altri no non ha senso, perché il problema è il sistema di raccomandazione. Concentrarsi sulla moderazione, il fact checking e la verifica dei post politici serve solo a distrarci da come funziona l’intera filiera pubblicitaria.

Come ha detto lo storico Niall Ferguson sul Wall Street Journal : “Il predominio della pubblicità online da parte di Alphabet e Facebook, unito all’immunità conferita dalla sezione 203, ha creato uno stato di cose straordinario. I più grandi editori di contenuti della storia sono regolamentati come se fossero delle semplici startup”. Insomma, nonostante la maggioranza delle compagnie tecnologiche abbia già preso provvedimenti in vista delle prossime elezioni, bloccare la pubblicità politica non cambierà un bel niente.

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[Fonte Wired.it]