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sabato, Dic 14

Che succederà adesso alla Brexit?


Boris Johnson nel 2016 (foto: Christopher Furlong/Getty Images)

Il Partito conservatore inglese, guidato dall’eccentrico Boris Johnson, ha festeggiato la vittoria elettorale più ampia dal 1992, conquistando oltre 70 seggi rispetto al 2017: una maggioranza di 368 seggi in parlamento che preannuncia una strada spianata per la principale missione del premier uscente: portare a compimento la Brexit, a qualunque costo.

Per gli inglesi la buona notizia è che tre anni di paralisi politica sono finiti. L’uscita dall’Europa è a un passo, anche se il costo è stata una lacerazione politica e culturale non indifferente. La sentenza del voto è stata chiara: il paese ha rigettato il vecchio-nuovo socialismo e scelto un governo stabile, capace di governare le sfide che lo attendono.

Per Johnson, deriso da molti commentatori progressisti in Europa come inadeguato e borioso, si tratta di un trionfo personale: il primo premier conservatore che è riuscito a non farsi schiacciare – direttamente o indirettamente – dalla questione europea dopo Thatcher, Mayor, Cameron e May. Ha dovuto cambiare in parte l’identità del suo partito per riuscirci, trasformandolo in un fautore della spesa pubblica e rigettando le virtù salvifiche della globalizzazione, ma c’è riuscito.

Di contro, gli inglesi faranno presto una scoperta spiacevole, se non ne sono già consapevoli: che ci vorrà ben più di un voto per uscire dall’Europa – concetto quanto mai vago e indefinito durante la campagna del referendum – e che prima di una rottura radicale bisognerà andare avanti con un nuovo round di negoziazioni a Bruxelles. Tutto questo mentre si prepara un’escalation nazionalista in Scozia e in Irlanda del Nord che potrebbe scatenare e moltiplicare altre consultazioni popolari. Gli inglesi potrebbero scoprire che per essersi assicurati la Brexit potrebbero perdere l’Inghilterra. La parte più difficile della traversata antieuropea forse si è conclusa, e un secondo referendum rigettato; ma quel che viene dopo è avvolto dalla nebbia.

La data ufficiale per l’uscita dall’Ue – che a questo punto sembra davvero quella definitiva – è il 31 gennaio 2020. Johnson ha già trovato un accordo con l’Ue, ma deve ancora farlo approvare dal Parlamento. Dovesse fallire in questo passaggio, ha promesso di approvare l’uscita senza il deal, ma considerata la maggioranza di cui dispone non si capisce proprio – salvo complicazioni impreviste e colpi di scena – come ciò possa avvenire.

Il primo appuntamento, dunque, per la settimana prossima, e la reintroduzione del Withdrawal Agreement Bill in parlamento, un pacchetto di leggi attuative presentato già nei mesi scorsi a Westminster per quello che il governo spera poter essere un iter sprint, come “il più grande recupero di controllo” di sovranità “nella storia” britannica. La speranza è quella di approvare il bill e di procedere spediti verso la data fatidica di gennaio.

Una volta passati oltre il confine della Brexit, la prima priorità sarà negoziare un nuovo accordo commerciale con l’Ue. L’interesse delle parti in gioco sembra quello di trovare un accordo a tutti i costi, poiché l’esaurimento nervoso sembra prevalere anche da parte di francesi e tedeschi. L’Ue potrebbe però chiedere diverse settimane per chiedere un mandato formale ai negoziati – che riguarda tutti gli altri 27 stati rimanenti e il Parlamento europeo. Questo vuol dire che i colloqui formali potrebbero non iniziare prima di marzo.

Questi colloqui dovranno necessariamente produrre un accordo prima di giugno – il momento in cui il Regno Unito dovrà decidere se estendere o no il periodo di transizione di uno o due anni. Johnson ha già detto che non se ne parla. Se dunque nessun accordo commerciale sarà trovato prima di quella data, la prospettiva di uscire dall’Ue senza accordo si materializzerebbe nel dicembre 2020.

Nessun accordo commerciale di queste dimensioni e complessità è mai stato approvato tra l’Unione europea e un altro paese in tempi brevi come quelli stabiliti in questo caso. I più pessimisti ritengono che siccome il Regno Unito vorrà più libertà di divergere dall’Ue nelle negoziazioni dirette con altri paesi extra-Ue, le negoziazioni si faranno più complesse di quanto si possa immaginare ora.

E non c’è solo il commercio. Il Regno Unito deve trovare un accordo anche sulla cooperazione con l’Ue sul terreno della sicurezza e le forze dell’ordine. Ad esempio, Londra dovrebbe abbandonare l’accordo definito European Arrest Warrant e rimpiazzarlo con qualcos’altro.

La maggioranza di cui dispone Johnson, di oltre 70 seggi, significa che il nuovo Trump europeo può cercare qualunque strategia per la Brexit egli voglia. Per alcuni questo può voler dire un approccio più accomodante durante le negoziazioni, poiché gli hardliners, i più duri contro l’Europa, non avrebbero i numeri per ricattarlo. Secondo Ivan Rogers, ex rappresentante permanente del Regno Unito presso l’Unione europea, invece bisogna andarci piano con questa ipotesi, poiché finora il premier non ha dato alcun segnale di essere disposto a cedere, o di volere una soft Brexit. In un’intervista a Prospect, Rogers ha aggiunto che Bruxelles e molte capitali hanno accolto con favore la chiarezza del risultato, ma solo perché vedono in esso l’opportunità di stipulare un accordo rapido e vantaggioso per loro su alcune questioni specifiche, rimandando altri problemi a data da destinarsi.

L’interesse del Regno Unito potrebbe essere tutt’altro. Inoltre, il modo in cui Johnson si presenterà alle negoziazioni definirà il suo primo anno di mandato. Il braccio di ferro potrebbe finire male.

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