Clima, nei prossimi cinque anni potremo raggiungere il nuovo record di temperatura globale annuale. Lo ha annunciato l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), l’agenzia delle Nazioni Unite che monitora il clima del pianeta, indicando una probabilità dell’80% che questo accada entro il 2030. Le conseguenze sarebbero drammatiche: siccità devastanti che comprometterebbero la produzione agricola mondiale, alluvioni sempre più violente che spazzerebbero via intere comunità, incendi forestali incontrollabili che distruggerebbero ecosistemi fondamentali per l’equilibrio climatico. Secondo il rapporto diffuso mercoledì 28 maggio, esiste anche una possibilità dell’1% che entro il 2030 si verifichi un anno con temperature globali superiori di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Pur trattandosi di una probabilità minima, il dato ha scioccato la comunità scientifica perché fino a pochi anni fa uno scenario del genere era considerato completamente impossibile in un arco temporale così breve. Il superamento di questa soglia avrebbe un significato altamente simbolico e politico: sancirebbe il fallimento dell’Accordo di Parigi, l’intesa sul clima approvata nel 2015 alla Cop21, la ventunesima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In quell’occasione, 196 paesi si impegnarono a limitare l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto dei 2°C”, puntando, se possibile, a contenere il riscaldamento entro 1,5°C. Uno sforamento già nel prossimo quinquennio metterebbe seriamente in discussione la credibilità di quell’accordo e l’efficacia delle politiche climatiche adottate fino a oggi.
Cosa implica superare la soglia dei 2gradi?
Nel 2024 la soglia di +1,5°C è già stata oltrepassata per un intero anno – la prima volta nella storia dell’uomo – un evento che tutte le previsioni precedenti al 2014 consideravano altamente improbabile. L’anno scorso ha infatti battuto il record del 2023, che a sua volta aveva superato tutti i 175 anni di misurazioni meteorologiche sistematiche, creando una sequenza di primati che dimostra l’impossibilità di considerare questi episodi come semplici anomalie temporanee. Anche la temperatura media quinquennale del periodo 2025-2029 ha il 70% di probabilità di superare i famosi 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, soglia che rappresenta un vero e proprio punto di non ritorno climatico.
Superare in modo duraturo questo valore – cioè non per un singolo anno, ma come nuova media consolidata – significherebbe innescare una serie di processi irreversibili. Lo indicano migliaia di studi coordinati dall’Ipcc, il panel intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico. Tra i rischi più gravi: lo scioglimento irreversibile delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide occidentale, la transizione dell’Amazzonia da foresta pluviale a savana, l’acidificazione degli oceani con effetti devastanti sulla biodiversità marina. Un riscaldamento stabile di +2°C – soglia che oggi resta ancora lontana, ma verso cui ci stiamo muovendo con preoccupante rapidità – renderebbe questi processi molto più rapidi e intensi, con il potenziale di rendere inabitabili intere regioni del pianeta e costringere centinaia di milioni di persone a spostamenti forzati permanenti.
A complicare ulteriormente il quadro contribuiscono anche fattori naturali che, pur non essendo causati direttamente dall’attività umana, amplificano il riscaldamento in atto. Tra questi, un episodio particolarmente intenso di El Niño – il fenomeno che ogni 3-7 anni riscalda le acque del Pacifico tropicale, influenzando i modelli climatici globali – ha contribuito all’anomalia termica del 2024. A questo si è aggiunta una fase positiva dell’Oscillazione Artica, che tende a spingere masse d’aria calda verso il Polo Nord, accelerando lo scioglimento dei ghiacci artici. Sono dinamiche che, pur non dipendendo direttamente dall’uomo, vanno tenute in considerazione perché possono facilitare – o anticipare – il raggiungimento di soglie climatiche critiche.
Quali saranno le prime zone a pagarne il prezzo?
Il riscaldamento globale non colpirà tutte le regioni allo stesso modo né con la stessa intensità temporale, come evidenzia il rapporto della Wmo. L’Artico rappresenta la zona più vulnerabile: questa regione si riscalda 3,5 volte più velocemente della media mondiale a causa del “feedback dell’albedo”, il meccanismo per cui il ghiaccio bianco che si scioglie lascia scoperto l’oceano scuro, che assorbe fino al 90% del calore solare invece di rifletterlo nello spazio. Questa accelerazione artica sta già alterando le correnti atmosferiche che determinano il clima dall’Europa al Nord America.
Sul fronte opposto, l’Asia meridionale – dove vivono oltre 2 miliardi di persone tra India, Pakistan e Bangladesh – e il Sahel africano affronteranno precipitazioni sempre più intense, mentre la foresta amazzonica subirà siccità devastanti che rischiano di trasformarla da alleato climatico in fonte di emissioni. Questa distribuzione disomogenea dipende dalle correnti oceaniche e atmosferiche che ridistribuiscono il calore su scala planetaria: quando questi flussi si alterano per l’accumulo di gas serra nell’atmosfera, alcune zone diventano amplificatori del riscaldamento mentre altre fungono da ricettori di effetti climatici estremi.