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sabato, Set 14

Come funziona il trapianto fecale, tra rischi e benefici


Dopo la morte di un paziente negli Usa, l’americana Fda stringe le regole sul trapianto fecale, in cerca di un quadro più definito alla procedura. In Italia la situazione è già diversa

intestino
(foto: Getty Images)

Nei media Usa questa estate si è parlato spesso di trapianto fecale. Se ne è parlato, purtroppo, soprattutto dopo che due pazienti che si erano sottoposti alla procedura hanno contratto infezioni resistenti agli antibiotici, derivanti dal donatore di feci. Uno di questi pazienti è morto. Il caso ha portato la Food and Drug Administration (Fda), l’organo statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci, a emanare una safety communication. Alla luce dei possibili e gravi effetti collaterali lagati al trapianto fecale, l’Fda ha stabilito che venissero esclusi come donatori quelle persone le cui feci risultino positive a organismi multiresistenti o abbiano, sulla base della propria storia, un’elevata probabilità di essere colonizzati da batteri multiresistenti. Ma non solo: ha messo in quarantena le pratiche di trapianto fecale in corso fino a che non venisse dimostrata la sicurezza dei campioni dei donatori. Un tentativo di mettere regole a un campo nuovo della medicina, sotto alcuni aspetti considerato ancora sperimentale, per altri invece una pratica, se non di routine, convalidata.

Almeno in Italia, come racconta a Wired.it Antonio Gasbarrini, direttore dell’area Gastroenterologia del Policlinico Gemelli di Roma, che da anni si occupa di trapianto fecale, e che con il suo gruppo è stato tra i primi ad avviare trial clinici randomizzati per testare l’efficacia della procedura. Con Gasbarrini abbiamo provato a capire un po’ meglio di cosa parliamo quando nominiamo il trapianto fecale e è perché in Italia sarebbe stato più difficile che avvenisse una storia simile a quella raccontata dalla stampa statunitense.

Come funziona il trapianto fecale

Con trapianto fecale o di microbiota intestinale (in inglese fecal microbiota for transplantation, Ftm) si identifica una procedura per cui le feci di un donatore, opportunamente preparato (per esempio non deve prendere antibiotici nel periodo a ridosso della donazione) vengono prelevate e lavorate in laboratorio. “Il prodotto finale di questa lavorazione è una sacca del tutto simile a quelle di plasma”, spiega Gasbarrini, “contenente però miliardi e miliardi di batteri e miceti, che viene conservata fino al suo utilizzo congelata in biobanche”. Al bisogno le sacche sono scongelate e infuse tramite colonscopia o clistere nel ricevente.

Una procedura di fatto, continua l’esperto, paragonabile al trapianto di un organo: “In questo caso l’organo che andiamo a trapiantare è il cosiddetto adattoma di una persona sana, la parte variabile del nostro genoma, risultante dalla colonizzazione da parte di comunità microbiche del sistema digerente, che si costruisce soprattutto nei primi anni di vita in risposta all’adattamento all’ambiente”, spiega l’esperto, microbiota e sistema immunitario insieme svolgono un ruolo fondamentale nel proteggere l’organismo da attacchi esterni, ma non solo”.

Il microbiota sembra giocare un ruolo in diverse condizioni di salute e l’adattoma, così come tutti gli organi, può danneggiarsi. “Una delle condizioni che mette più a rischio il microbiota è una terapia antibiotica prolungata, per esempio. Il microbiota è dotato di una certa resilienza, può ruscire a tamponare situazioni di stress, ma in alcune condizioni, come in giovanissimi o da anziani, può perdere questa capacità e specie patogene, normalmente tenute a bada da altre, prendono il sopravvento”. È il caso dell’infezione da Clostridium difficile, un batterio spesso resistente agli antibiotici, causa comune di diarrea nell’anziano, spiega Gasbarrini.

Il trapianto fecale contro le infezioni da C.difficile

Ed è proprio contro le infezioni di C.difficile resistente che oggi, nella pratica clinica, si pratica il trapianto fecale, nell’idea di sostituire un organo malato con quello sano di un donatore. Una procedura che al Gemelli viene effettuata su un centinaio di persone l’anno, confida Gasbarrini, non solo anziani: “Il trapianto fecale contro le infezioni da C.difficile è così efficace che oggi non è più considerato etico condurre sperimentazioni per ritrattare con antibiotici pazienti con l’infezione che hanno fallito il primo trattamento antibiotico”.

Un punto di svolta nella storia del trapianto fecale è arrivato nel 2013, con una pubblicazione storica sulle pagine del New England Journal of Medicine, che dimostrava appunto l’efficacia superiore del trapianto di feci contro le infezioni ricorrenti di C.difficile rispetto all’antibiotico. “Ma negli anni siamo riusciti a dimostrare che non solo il trapianto di microbiota guarisce dalle infezioni resistenti agli antibiotici, ma riesce anche a ridurre la mortalità”, aggiunge Gasbarrini, “Tanto che possiamo considerarlo un trattamento salvavita”.

Tessuto o farmaco?

Da tempo e in diverse parti nel mondo si discute se la biomassa fecale trapiantata vada considerata un tessuto o un farmaco. “In Italia il microbiota fecale è considerato un tessuto, e la procedura ricade sotto le competenze del Centro nazionale trapianti che sta stabilendo i criteri e le regole attraverso cui implementarlo a livello nazionale, a partire dalla definzione dei centri regionali che se ne occuperanno, ciascuna delle quali avrà una sua biobanca di biomasse”, spiega ancora Gasbarrini, “La scelta di considerarlo come un organo è quanto mai appropriata”.

Considerare un sistema complesso come il microbiota come qualcosa di standardizzabile e replicabile come un farmaco non ha senso, va avanti l’esperto, e questo modello regolatorio ha prodotto anche dei benefici. “Far ricadere il trapianto fecale nella branca dei trapianti ha evitato la mercificazione del microbiota, che avrebbe altrimenti rischiato di essere considerato al pari dei probiotici, specie in un periodo, come questo, in cui si parla continuamente del coinvolgimento del microbiota in varie condizioni di salute”, racconta l’esperto, “Inoltre alcuni dei grandi batteri del microbiota, proprio per le condizioni in cui si sviluppano nel tratto gastrointestinale umano, sono difficilmente coltivabili in laboratorio e questo rende anche tecnicamente difficile l’industrialiazzazione della procedura”. Sul fronte clinico, gli screening sul donatore – che devono essere sani, senza infezioni in atto o malattie del microbiota – e sulla biomassa, comprese le analisi per tutti i batteri multiresistenti, hanno evitato complicazioni, scongiurando finora casi simili a quelli avvenuti oltreoceano sui due pazienti immunocompromessi.

Solo contro le infezioni di C.difficile

Esiste una valanga di dati sugli effetti del microbiota sulla salute. Non stupisce quindi che da tempo si stia cercando di capire, tra l’altro, se il trapianto di microbiota possa avere un ruolo in altri campi al di fuori di quello del trattamento di gravi infezioni. Cercando su clinicaltrial.gov sono centinaia gli studi in corso per capire se la procedura possa considerarsi efficace contro diverse malattie, come colite ulcerosa, obesità, Crohn, a anche Parkinson, sclerosi multipla e artrite psoriasica. Anche se molte di queste ricerche sono promettenti, si tratta ancora oggi di dati sperimentali, per cui non ci sono evidenze di raccomandazioni, come concludeva anche il documento della consensus conference europea sul tema nel 2017: “Considerare ancora una volta la procedura come un trapianto mette al riparo da strumentalizzazione e usi inappropriati e fuori dalle indicazioni”, conclude Gasbarrini. “L’uso contro le infezioni di C.difficile sta dettando le regole: il trapianto di microbiota potrebbe avere numerosissime indicazioni, prima però sarà necessario aspettare le evidenze scientifiche e risolvere alcune complicazioni”.

Come per esempio la caccia alla cosiddetta magic poop, il campione fecale ideale nel trattamento di alcune patologie come quelle immunitarie: “Nel trapianto contro le infezioni di C.difficile dopo circa 4 mesi il ricevente torna a sviluppare la sua biomassa originaria e riguardo al donatore l’unico requisito richiesto è che lui e il suo microbiota siano sani. In altre condizioni invece, come le patologie immunomediate, medici e ricercatori sono alla ricerca di biomasse particolari, che non rischino di peggiorare la malattia”. Proprio in virtù del legame tra immunità e microbiota.

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