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giovedì, Giu 20

Come il food delivery ha iniziato a sfruttare i migranti irregolari


Il New York Times scrive che in Francia alcuni ex rider mettono a disposizione il loro account a persone disperate dietro una commissione che varia dal 30 al 50%

(foto: Matthew Horwood/Getty Images)

Negli ultimi tempi, il lavoro di consegne a domicilio effettuato dai rider è diventato il nuovo simbolo di un certo rischio di sfruttamento sul lavoro. Bisogna correre da una parte all’altra della città, si viene giudicati da un algoritmo, non esistono tutele contrattuali e non c’è possibilità di essere stabilizzati. Eppure, oggi si scopre che quella dei fattorini di per sé non è la categoria più bistrattata del XXI secolo. Ne esiste un’altra che – se è possibile – è messa anche peggio: quella composta da migranti irregolari, richiedenti asilo e minorenni che affittano l’account dei fattorini, svolgono le consegne al loro posto e versano loro dal 30 al 50% di quanto guadagnano.

Succede nel Regno Unito, in Spagna e in Francia.

Il New York Times ha contattato alcune di queste persone che vivono o lavorano a Parigi per capire come avviene questo scambio, e cosa spinge gli uni e gli altri a scegliere questo sistema come fonte di guadagno. La risposta breve è: la disperazione.

Un fenomeno complesso

Rider e migranti comunicano soprattutto via Facebook, WhatsApp o Telegram. I primi mettono a disposizione il loro account e dettano le condizioni; i secondi possono solo acconsentire o rifiutare perché, spiega l’inchiesta del Times, non sono in una posizione negoziale adatta per una mediazione.

Florent, un rider che ha accettato di parlare con l’autorevole quotidiano statunitense, ha detto che ha lavorato per tre diverse app di consegna a domicilio, poi si è stancato: le condizioni peggioravano di anno in anno e guadagnava sempre meno. Affittare l’account gli sembrava più redditizio. Oggi lo presta ai migranti, cui chiede una commissione del 30%. Lo stesso fa il diciottenne Youssef El Farissi. “Se ci pagassero di più, non abbandoneremmo il nostro account“, si è giustificato El Farissi.

Dall’altro lato, ci sono persone come Aymen Arfaoui: 18 anni, originario della Tunisia, è arrivato in Italia con un barcone e, nascondendosi sui treni, è riuscito ad arrivare in Francia e per un mese ha vissuto in una vecchia automobile abbandonata. Così come ogni altro migrante irregolare o richiedente asilo, non può lavorare con un contratto finché la sua domanda non viene accettata. Correre da una parte all’altra della città era l’unico modo per prendere qualche soldo senza entrare nel giro della criminalità organizzata. Ha iniziato affittando l’account di un fattorino di Uber Eats per 100 euro a settimana, lavorando fino a 13 ore al giorno.

E le compagnie interessate, cosa dicono?

Quasi nessuna compagnia di consegne a domicilio permette ai fattorini di affittare il proprio account. Nessuna consente di farlo a un migrante irregolare o a un minorenne. Persone come Florent commettono quindi un illecito.

Il New York Times scrive che Uber Eats, Glovo e Stuart, una compagnia francese di consegne a domicilio, sanno che si sta diffondendo questa pratica e la considerano un grande problema. Stuart e Deliveroo in particolare ne avrebbero discusso anche con alcuni ministri del governo francese per cercare di trovare una soluzione, e Glovo avrebbe deciso di interrompere immediatamente la collaborazione coi fattorini che vengono scoperti a fare questo scambio. Secondo Alexandre Fitussi, direttore generale della compagnia, il 5% dei circa 1200 rider che facevano consegne a domicilio per Glovo erano migranti irregolari.

Nicolas Breuil, global marketing manager di Stuart, ha detto a questo proposito: “Siamo preoccupati perché queste sono pratiche illegali tramite le quali alcune persone traggono vantaggio dalla vulnerabilità di altre”.

Il fenomeno, peraltro, non è limitato ai paesi indicati dall’inchiesta del quotidiano: anche in Italia il fenomeno dei rider migranti è noto: un recente studio dell’università Statale di Milano ha scoperto che la maggior parte dei fattorini del food delivery che lavorano in città sono stranieri, e non hanno altre fonti di reddito.

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