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sabato, Nov 30

Come la letteratura ha raccontato l’Aids


In occasione della Giornata mondiale della lotta all’Aids 1° dicembre, ecco nuovi suggerimenti di lettura per ricordare letterariamente la storia di una catastrofe che ha cambiato la vita di milioni di persone

Il 1° dicembre sarà la Giornata mondiale della lotta all’Aids, indetta nel 1988. Dopo tanti anni, sarebbe illusorio considerata debellata l’epidemia che ha mietuto negli anni oltre 25 milioni di vittime in tutto il mondo, mettendo in questione le categorie di sessualità libera e generando nella società un vero e proprio stigma nei confronti specie dell’omosessualità – come se già non fossero bastati intolleranza e ghettizzazione nel corso della storia. Possiamo però provare a sanare questa ferita della contemporaneità andando a esplorare tra i libri che hanno affrontato il dramma, oppure richiamando alcuni autori da scoprire o riscoprire, che sono stati loro malgrado investiti da questa indelebile peste contemporanea, chi con senso di tragicità chi in modo più grottesco e ironico.

Potremmo partire da un romanzo che uscirà nell’autunno del 2020 per Einaudi, I grandi sognatori di Rebecca Makkai. Lo scorso anno è stato finalista del National Book Award e del Man Book Prize, nonché vincitore di altri premi importanti. Racconta intrecciandole due vite attraversate dall’Aids, quella di un gallerista della Chicago gay degli anni Ottanta e quella di una madre alla ricerca della figlia perduta a Parigi. Con questo sfasamento temporale, il libro ha innanzitutto il merito di riportare l’attenzione sull’attualità della sieropositività in un mondo occidentale che pare essersene dimenticato. Il romanzo inizia con il funerale di Nico, un uomo di origini cubane morto per Aids. Il funerale è quel momento in cui i suoi amici e amori si incontrano, tra questi Yale, Yale Tishman, gallerista che sta raggiungendo l’acme della propria carriera proprio mentre – siamo a metà anni Ottanta – i suoi amici stanno morendo come mosche per l’epidemia. Il romanzo seguirà la vita di Yale ma anche quella di Fiona, sorella di Nico, che non insegue solo la figlia nella Parigi di trent’anni dopo in quel 2015 scosso dagli eventi del Bataclan, ma anche in un certo senso i fantasmi del fratello scomparso e di un’intera epoca descritta nel romanzo come una vera e propria catastrofe. “Questa malattia ha magnificato tutti i nostri errori”, si legge nel romanzo. E questo romanzo della Makkai non enfatizza magnificamente solo gli errori, ma anche i legami che attorno alla malattia si sono creati, quelli più duri ma anche quelli più dolci.

Rimanendo in area americana, possiamo mettere in scena, con qualche scintilla, due giganti che spesso si sono anche scontrati: da un lato Susan Sontag dall’altro Edmund White, entrambi legati in modi differenti alla sieropositività. La prima è di recente stata riportata in Italia dopo una certa assenza (o noncuranza di opere considerate minori, specie della narrativa) dall’editore Nottetempo, che ha deciso però ripartire dai suoi Diari. Il secondo volume pubblicato recentemente, La coscienza imbrigliata al corpo. Diari 1964-1980, precede di poco non solo lo scoppiare dei primi casi di Aids, ma anche un saggio che lei stessa scrisse sulle metafore di quella malattia come epidemia e catastrofe globale di un mondo consumistico e iper-capitalista, L’Aids e le sue metafore, uscito nel 1988. Ma potremmo anche citare il suo racconto Come viviamo adesso che trattava, attraverso la forma di una storia rivelata dal puro dialogo, proprio dell’impatto della malattia nella comunità intellettuale di New York (fu pubblicato nel 1986 dal New Yorker, con una certa eco). Criticata aspramente dalla comunità Lgbt per aver rivelato la propria omosessualità solo negli anni 2000, la Sontag in questo nuovo volume attraversa non solo i primi (relativi) successi delle sue pubblicazioni, ma anche le esplorazioni più corporali che vennero però macchiate anche dal cancro al seno diagnosticato nel 1975. Sono diari molto frammentari, aforistici, ma spesso taglienti, composti spesso attraverso liste (ad esempio: liste di caratteristiche che una persona della quali ci si invaghisce dovrebbe avere), di illusioni e disillusioni amorose (“l’elaborazione di perdite amorose” è una delle parti principali del volume), miste a riflessioni anche crude sulla maternità e al rapporto col figlio, che è il curatore al quale la madre morente affidò il faldone segreto. Un grande senso di solitudine fiera e spezzata, e a tratti crudele, circonda questo secondo volume – “Paura che l’altro se ne vada: paura dell’abbandono”, si legge in una delle sue annotazioni – una fragilità che si ritrova anche nel racconto sopramenzionato sull’Aids, piuttosto che nel suo saggio tutto “protetto” da un’algida profondità da filosofa.

Forse quella freddezza che – nonostante il racconto del New Yorker descrivesse una “utopia dell’amicizia” tra le persone colpite dalla malattia di un amico morente, proprio come nel romanzo della Makkai – gli è stata rimproverata dalla comunità gay, la quale si è invece ritrovata pienamente nei romanzi parzialmente autobiografici dell’altro Titano della critica americana, Edmund White. L’editore Playground in Italia ha ripubblicato in questi anni due volumi della sua tetralogia: Un giovane americano, La bella stanza è vuota e nel 2019 è uscito La sinfonia degli addii, un romanzo che parte dall’orrore di una New York distrutta dalla malattia, ma che sapeva anche donare con vitalità la gioia degli anni Settanta e Ottanta dove centinaia di giovani, spesso provenienti dalla provincia, venuti in città per sperimentare la loro sessualità in modo a tratti ingordo ma spesso spensierato, cercando a volte l’amore eterno o una nuova frontiera del proprio corpo. Il libro, che non è solo affresco ma anche commiato a un epoca (il riferimento alla Sinfonia di Haydin è per quello) parte però dalla famosa rivolta gay di Stonewall di fine anni Sessanta, come violento e profondo atto liberatorio di un decennio che si risolverà però nella tragedia, un decennio in cui il sesso era “un appetito” che doveva “essere sfamato ogni giorno”, e in cui il narratore ci racconta di decine di amanti e personaggi, ballerini, attori, poeti, buffi e nevrotici che piano piano poi si ammaleranno – tragica e comica a un tempo la frase ad inizio del libro: “In questo periodo mi ritrovo a scopare soprattutto con i morti…” ma da lì li richiamerà sontuosamente uno a uno in vita, con un stile che potremmo definire ipersensuale.

Se ci muoviamo invece nell’ambito latino-americano rispetto all’anglosassone, parrebbe che il problema sia stato solo tangente la produzione letteraria, ma solo in parte è vero. Grandi scrittori come il cubano Reinaldo Arenas (morto il 7 dicembre 1990) sono scomparsi ad esempio durante l’epidemia newyorkese. Citiamo solo due autori, l’uno vivente l’altro a nostro avviso da riscoprire e ripubblicare in Italia. Il primo è il messicano Mario Bellatin, autore raffinato nei confronti del quale è presente un vero e proprio culto non troppo seguito in Italia. Salone di bellezza è un suo romanzo breve uscito nel 2011 per La Nuova Frontiera e andrebbe riletto assieme al suo autore. “Alcuni anni fa la passione per gli acquari mi portò a decorare il mio salone di bellezza con pesci di diversi colori. Ora che il salone è diventato un lazzaretto dove passa i suoi ultimi giorni chi non sa dove altro farlo, mi rattrista vedere che i pesci poco alla volta sono spariti”: parte così, con una nota quasi cinica, il romanzo di Bellatin. A parlare è il proprietario di un salone di bellezza – il quale si divide tra l’attività del proprio salone en travesti e le notti alla ricerca di uomini per strade infestate da squadracce di “pestafroci” – un salone che diviene rifugio di uomini malati di un’epidemia senza nome che è facile chiamare Aids. All’inizio, il narratore pare intenzionato a salvarli, in questa sua comunità precaria e fraterna dove cercano aiuto quelli rifiutati da famigliari e parenti, ma ben presto, lui stesso malato tra i malati, coglie una sorta di splendida bellezza pietosa nelle loro morti solitarie. “Il male diventa uguale per tutti soltanto nello stadio finale. Allora diventa una sorta di letargo, e il malato non chiede e non dà più niente”, si legge in un testo che all’erotismo e al libertinaggio di White dosa anch’esso il senso di un congedarsi necessario.

Sempre in area latino-americana, ma con la vertigine di un autore che si è espresso pressoché sempre in francese, sarebbe da riportare in Italia il geniale Copì, scrittore e drammaturgo nato a Buenos Aires, però sicuramente più famoso in Francia, e morto per Aids a Parigi nel 1987. Dissacrante e grottesco quanto e più di Bellatin, l’argentino addirittura mise in scena sé stesso prima di morire come un malato visitato dalla Morte, nel dramma Una visita inopportuna. Il suo romanzo forse più famoso è il satirico romanzo petroniano Il ballo delle checche del 1977, un romanzo in cui l’autore, prestando il proprio nome al protagonista, racconta l’amore violento e grottesco con Pierre, un uomo privo di qualità ma verso il quale è masochisticamente attratto. E sarà un vero e proprio manifesto pirotecnico di quello che l’autore stesso definisce un “masochismo militante” questo racconto pieno di humor nerissimo, che viaggia fino alla nostra New York, dove Pierre tradisce Copi con una donna che imita Marylin e entrambi si prostituiscono, in un susseguirsi di colpi di scena surreali, nonsense e violenze gratuite, che con sarcasmo ci svela tuttavia l’autodistruzione e il masochismo dell’amore omosessuale, un po’ drag e un po’ fetish, descritto da Copi.

Dalle nostre parti, giusto quest’anno il dibattito sul tema delicatissimo è riemerso grazie ad un giovane esordiente, Jonathan Bazzi che ha pubblicato il suo primo romanzo memoir Febbre per Fandango. La storia, alternando il presente al passato dell’infanzia difficile di Jonathan nell’estrema periferia milanese di Rozzano, è quella della scoperta della sieropositività che avviene nel 2016. Ma l’aspetto originale di questo romanzo è la quasi liberazione da quella che era stata pensata come una malattia terminale manifestatasi in una febbre permanente, e che nel protagonista rappresenta quasi il riscatto dagli anni passati, specie da bambino. “Vengo ricondotto a una comunità, a una storia, una casistica. Il virus dell’Hiv conferma che sei gay e che hai fatto sesso” e quindi per la prima volta non subisci un’etichetta impostati dall’esterno. La sieropositività non come primo passo verso l’Aids ma come forma di identificazione e quasi di giustizia – per una volta non come giudizio, condanna quasi teologica! – appunto come accesso a una comunità più giusta, se si è vissuto un passato ai margini o anche marginalizzato e bullizzato negli stessi margini di una società spietata, intossicata da una mascolinità perniciosa.

E vorremmo chiudere, sempre rimanendo in con una segnalazione all’apparenza più gioiosa che è anche un consiglio di lettura particolare. Perché oggi queste storie sull’Aids debbono essere relazionate pur sempre con una liberazione sessuale che ha imparato, attraverso la catastrofe, ad essere consapevole. Di recente è nata in Italia Ossì, una fanzine di racconti e testi pornografici colti: “In ogni numero, un racconto zozzo da mondi che speriamo esistano davvero e le foto sexy scattate da qualcuno che vorresti ti conoscesse…” si legge nelle loro pagine. Nell’ultimo uscito, hanno scritto un racconto erotico a quattro mani Francesco Pacifico e Francesca Mancini. In tempi in cui ancora l’Aids aleggia tra di noi (sebbene non nelle notizie), anche il desiderio del lettore nei confronti di prodotti ben fatti è una forma di resistenza all’epidemia e all’isolamento.

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