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giovedì, Set 05

Come l’Italia viaggiò mezzo mondo per salvare i “boat people” vietnamiti, 40 anni fa


“Siete diversi dagli altri popoli, per voi esiste un prossimo che soffre”. Riportata in auge da un articolo di queste ore, un’incredibile storia italiana di solidarietà e accoglienza (in un periodo in cui nessun altro voleva farla)

“Boat people” nel mar cinese meridionale, 1982 (foto: Michel Setboum/Getty Images)

Il 21 agosto 1979 la Marina militare italiana restituiva alla terra ferma 907 rifugiati politici provenienti dal Vietnam del sud, superstiti della dura repressione seguita alla fine della guerra combattuta nel piccolo paese asiatico tra il 1955 e il 1975.

È una storia di sofferenza, di dedizione e infine di accoglienza, una storia a lieto fine facilmente riconducibile a dinamiche politiche di stretta attualità, ma da queste distante per dimensioni ed epoca storica. È soprattutto una storia molto bella, di cui si è tornati a parlare in questi giorni grazie a un grande articolo di Nicolò Zuliani per Termometro Politico.

I boat people

Sono i giorni caldi dell’emergenza umanitaria dei boat people, migliaia di civili vietnamiti costretti a lasciare le proprie abitazioni dopo la caduta di Saigon. Il conflitto tra Vietnam del nord e Vietnam del sud – il primo vero impegno bellico degli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, costato al paese circa 250 miliardi di dollari – è stato devastante, con imponenti perdite su entrambi i fronti. Il dopoguerra, in ogni caso, per gli sconfitti sarà anche peggio.

La guerra si conclude ufficialmente il 30 aprile del 1975, con la vittoria del regime comunista instaurato da Ho Chi Minh nel nord, che ora controlla l’intero paese. Il prezzo della riunificazione è terribile e il Vietnam del sud si trasforma così nello scenario da incubo di esecuzioni sommarie, espropri e persecuzioni. Gli abitanti delle aree sconfitte preferiscono la fuga alla morte e prendono il mare servendosi di imbarcazioni di fortuna, ribattezzate carrette del mare, e diventando boat people.

L’operazione Vietnam

Il mondo è shockato dalle immagini di disperazione provenienti dai barconi, in balìa della tempesta e dei pirati che affollano le acque del mar Cinese meridionale. L’accoglienza di rifugiati politici in fuga dal regime comunista è tuttavia una pratica molto delicata, soprattutto col muro di Berlino ancora in piedi, e nessun paese sembra davvero disposto a farsi carico dell’accoglienza.

L’opinione pubblica si mobilita e persino due intellettuali agli antipodi come Jean-Paul Sartre e Raymond Aron, un gauchista e un liberale sempre uno contro l’altro, si troveranno uniti nel perorare la causa dei vietnamiti di fronte al presidente francese Giscard d’Estaing. A sbloccare la situazione è però il presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini, socialista e partigiano, che di fronte a quelle stesse immagini non potè far altro che dare al capo del governo Giulio Andreotti l’ordine che tutti stavano aspettando: “Salva quelle persone”.

Iniziò così l’operazione Vietnam, affidata politicamente al ministro della Difesa Attilio Ruffini e al deputato semplice Giuseppe Zamberletti, scomparso il 26 gennaio di quest’anno. La Marina Militare italiana non aveva mai affrontato una missione di questa portata: tre navi, gli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e la nave appoggio Stromboli, per un totale di 832 posti letto, si riunirono a Creta dopo aver ridotto l’equipaggio per far posto ai naufraghi e partirono alla volta del golfo del Siam.

Nessuno nascondeva il dispiacere del mancato ricongiungimento alle famiglie” racconta al Sole 24 ore l’ammiraglio Marcello De Donno, che apprese la notizia della missione al termine di un’intera stagione al largo sulla Vittorio Veneto, “ma avevamo la netta percezione, tutti, fino all’ultimo marinaio, della responsabilità affidataci dal governo e dal presidente della Repubblica Sandro Pertini”.

Foto di Fresco/Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images

L’operazione partì ufficialmente il 4 luglio 1979 e dopo dieci giorni di navigazione le tre navi fecero sosta a Singapore, alla ricerca di rifornimenti e informazioni logistiche. Il primo salvataggio avvenne il 25 luglio, non lontano da una piattaforma petrolifera della Esso. Dopo 12mila chilometri in mare aperto, senza la possibilità di fare scalo e con condizioni atmosferiche a dir poco avverse, la Marina militare utilizzò i suoi tre interpreti (tra i quali due sacerdoti messi a disposizione dalla Chiesa) per recapitare un messaggio di speranza ai naufraghi:

Le navi a voi vicine sono della Marina Militare Italiana e sono venute per aiutarvi. Se volete potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi ci porteranno in ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e assistenza medica. Dite cosa volete e di cosa avete bisogno”.

È il momento più duro della missione. I militari erano preparati allo scenario peggiore possibile, ma non a quello scenario: esseri umani allo stremo, con in braccio bambini denutriti e condizioni igieniche disumane. L’ammiraglio De Donno racconta: “Ricordo ancora i loro occhi: c’era il dolore di aver lasciato tutto, il senso di smarrimento, le incognite del futuro. E la sofferenza atroce, in molte donne, nell’aver subito violenze”.

A quel punto saltano tutti gli schemi, le procedure per evitare contagi non esistono più. Esistono solo persone al di là e al di qua di una barca, che devono essere portate in salvo e protette. In tutto la Marina militare salverà 907 persone, tra cui 125 bambini, percorrendo 2640 miglia marine e perlustrando 250mila chilometri quadrati.

Le tre navi faranno ritorno in Italia solo il 21 agosto, accolte da un nuovo governo (il primo presieduto da Cossiga) e da tutti gli alti gradi militari del paese. Per evitare qualsiasi rischio di contagio, i naufraghi avrebbero affrontato un periodo di quarantena nel Lazzaretto vecchio di Venezia, ma molti di loro faranno resistenza prima di sbarcare, chiedendo informazioni sulla possibilità di arruolarsi in Marina, come forma di gratitudine.

Molte delle persone salvate sono oggi cittadini italiani a tutti gli effetti, così come i loro figli e in qualche caso i loro nipoti. Insieme alle loro vite e alla loro gratitudine, di questa storia resta una lettera, scritta dai vietnamiti portati in salvo e destinata all’equipaggio:

Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per questa causa vi siete sacrificati. Grazie”.

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