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martedì, Mar 03

Come mai il cinema italiano ora vince così tanti premi?



Da Wired.it :

Questione di individualità ma anche di un clima che è completamente diverso e ne beneficia anche il cinema commerciale

Più di 10 anni fa, nel 2008, quando Gomorra e Il divo vincevano al festival di Cannes (rispettivamente il Gran Premio della Giuria e il Premio Della Giuria) si parlò di una possibile rinascita del cinema italiano. Del resto si parla sempre di una rinascita del cinema italiano, ad ogni piccolo vento di vittoria. Quella volta però fu una previsione giusta. Il cinema italiano, dopo almeno un paio di decenni in cui sembrava essersi chiuso nei confini nazionali con pochissimi autori capaci di sfondare quella parete (e non sempre con chissà quali risultati) e il solo Nanni Moretti a fare da portabandiera, era davvero pronto a cambiare. Ora, 12 anni dopo, il clamoroso risultato arrivato due giorni fa dal festival di Berlino è l’ultimo di una lunghissima schiera: avevamo due film in concorso ed entrambi sono stati premiati (Miglior sceneggiatura a Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, miglior attore a Elio Germano per Volevo nascondermi).

 (Photo by Jens Kalaene/picture alliance via Getty Images)

Inutile stare a fare il conto qui, basti pensare che dal 2008 ad oggi Fuocammare e Sacro Gra di Gianfranco Rosi hanno vinto rispettivamente Berlino e Venezia, La grande bellezza ha vinto l’Oscar (e moltissimi premi prima, avvicinandosi a quello grande), Alice Rohrwacher ha vinto il Gran premio Speciale a Cannes nel 2014 con Le meraviglie e poi ancora nel 2018 ha vinto la miglior sceneggiatura con Lazzaro felice, Matteo Garrone ha vinto un’altra volta poi con Dogman (miglior attore) sempre a Cannes dove Elio Germano aveva vinto la palma come miglior attore per La nostra vita di Luchetti nel 2010 e Jasmine Trinca l’ha vinta per Fortunata nel 2017. Senza dimenticare l’Orso d’Oro vinto dai fratelli Taviani con Cesare deve morire nel 2012 e la valanga di premi veneziani accumulati. A questo poi si potrebbero aggiungere i film non premiati ma che hanno riscosso grandissimo successo come Fiore di Claudio Giovannesi o Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino e A Ciambra di Jonas Carpignano (co-prodotto da Martin Scorsese) e Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli (film d’incasso minuscolo in Italia ma risonanza europea gigantesca). Parliamo di una media di almeno un grande premio all’anno.

La spiegazione più semplice di queste vittorie sono le individualità, negli ultimi 15 anni almeno sono emerse due nuove generazioni di autori importanti, forti e con idee proprie, le prime a non essere succubi della grande tradizione italiana degli anni ‘50 e ‘60, a non dover imitare qualcuno ma ad avere anche modelli internazionali. Abbiamo vinto tanto perché ci sono sceneggiatori, registi e attori bravi. Ma guardando più in profondità è cambiato proprio il clima, a tutti i livelli, da quello del cinema d’autore (quindi premi e festival) a quello del cinema commerciale (anche se con più fatica e meno risultati). Anche grazie al parallelo successo della nostra serialità televisiva il campionato in cui nascono e crescono talenti non è più quello nazionale ma, da subito, è quello internazionale, il pubblico che devono soddisfare i loro film non è più quello italiano ma, da subito, quello internazionale. E con questi risultati anche le società di produzione anche sono più inclini ad affidare film ad esordienti con idee capaci di sfondare all’estero. Finalmente abbiamo la possibilità di lavorare seriamente sul nostro vivaio. Il successo di Fabio e Damiano D’Innocenzo, che già con il loro primo film, due anni fa, si erano fatti notare sempre a Berlino, lo testimonia. All’epoca di La terra dell’abbastanza i due avevano 29 anni e più rassegna stampa straniera di quanta ne abbia mai avuta Antonio Albanese.

Il buono è che tutto questo non rimane nella cerchia del cinema d’autore. I premi dei festival, nonostante sembrino cose lontane, quando arrivano con la costanza con cui sono arrivati negli ultimi 12 anni cambiano tutto. Cambiano credibilità, denaro delle società di produzione e notorietà estera. I premi vinti sono importanti perché col tempo possono tradursi in vendite in paesi stranieri, grande circolazione del cinema italiano e desiderio di altri produttori e professionalità straniere di collaborare. Ci mette poco tutto questo a fare il salto dal cinema d’autore a quello commerciale. I nostri film da decenni erano inesportabili, troppo succoso era il box office italiano e troppo facile era produrre commedie a costi abbastanza bassi e incassi medio alti. Quel modello l’hanno mandato in crisi Netflix, le alternative casalinghe, i videogiochi e il ricambio generazionale di pubblico, senza però che ce ne fosse un altro a soppiantarlo. Per fortuna questo accadeva proprio negli anni in cui l’Italia trovava una nuova considerazione internazionale e quindi i mercati stranieri erano pronti a prendere film italiani. Bastava che non fossero “nazionali”.

Del cambio di passo ce ne siamo accorti tutti con Lo chiamavano Jeeg Robot ma era una tendenza più grande che lavorava ed erodeva il mercato dei film inesportabili ormai da anni. Adesso che il botteghino italiano è tutto a favore del cinema hollywoodiano, se un produttore vuole essere certo di un ritorno è costretto a pensare anche all’estero. Per chi ha idee diverse dal vecchio cinema italiano è una manna. Accade così che nascano realtà come i film di Matteo Rovere (Veloce come il vento, Il primo re), che personalità come Fabio e Fabio trovino un buon terreno (Mine, Ride), che le commedie si facciano commedie d’azione (Smetto quando voglio, Gli uomini d’oro) e che anche i concept più tradizionali siano esportabili (Perfetti sconosciuti). Questi film non vincono premi ma nel complesso raccontano di un cambio di mentalità più ampio. Ci alimentiamo sempre meno del successo interno, delle pacche sulle spalle nostrane e invece giriamo, parliamo e ci confrontiamo con gli omologhi stranieri.

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[Fonte Wired.it]