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martedì, Ott 08

Come non parlare di un femminicidio


Dallo storytelling dell’orrore agli stereotipi deleteri del “raptus” e dell’amore non corrisposto, sempre col fuoco centrato sull’assassino: i casi di cronaca che ci raccontano cosa sbagliamo nel discutere di violenza sulle donne

(Foto Matteo Corner/LaPresse)

L’ultimo caso è stato quello della 36enne Zinaida Solonari, ammazzata dal marito nel cortile di casa della sorella, a Cologno al Serio. Due coltellate dal 47enne Maurizio Quattrocchi, da cui si era allontanata appena una settimana prima con le tre figlie – due delle quali avute con l’uomo – perché era diventato aggressivo e violento. Al solito, le cronache spiegano con le “crisi di gelosia” l’atteggiamento di Quattrocchi, ed è questo il primo e più profondo limite dell’approccio ai femminicidi. Lo avevamo notato già recentemente, quando la stampa chiamava “gigante buono” il 45enne Massimo Sebastiani, assassino di Elisa Pomarelli nel piacentino, e in realtà tante, troppe altre volte. La superficialità dell’analisi, lo storytelling che ruota intorno all’omicida, l’inversione della logica da cui occorrerebbe inquadrare i fatti. In definitiva quella mescolanza di presunte ragioni e sceneggiate distorte emozioni, quel tripudio di “raptus” e “istinti” che ci stanno facendo girare su noi stessi, quando raccontiamo questi casi. Senza andare da nessuna parte. Basti vedere l’ultimo spettacolo da Bruno Vespa.

Per un fenomeno che le Nazioni Unite paragonano a cancro, incidenti stradali e malaria – per quanto riguarda rispettivamente le cause di morte e menomazione e i danni alla salute – servono strumenti nuovi. Anche narrativi. La violenza sulle donne – che, secondo dati del 2014, toccava il 31,5% delle italiane fra i 16 e i 70 anni – non può più fermarsi all’accoppiata dei servizi di cronaca e dei commenti di turno, più e meno centrati. Servono tante competenze per affrontare la piaga sociale anzitutto spiegandola nel modo giusto: società, leggi, sorte delle vittime. Senza esitare sulle ragioni dell’assassino, cercando un retroterra che non esiste e che alle volte rischia di sfiorare una qualche assurda giustificazione. Ma certo la stampa può fino a un certo punto: questi casi finiscono nel tritacarne della tv del pomeriggio da cui escono sfigurati. Chi si ricorda l’oscenità del caso di Ylenia Grazia Bonavero, l’allora 22enne di Messina bruciata viva dal ragazzo, scampata alla morte e suo malgrado protagonista di un surreale collegamento in diretta dall’ospedale con Barbara d’Urso nel quale, in evidente stato di shock, lo difendeva e diceva di amarlo ancora? Nulla è cambiato.

Quindi per prima cosa occorrerebbe raccontarli dalla giusta prospettiva, questi assassinii, e in generale ogni violenza. Quella di un fenomeno purtroppo radicato, fondato nelle logiche patriarcali e di un paese che solo nel 1981 ha abolito delitto d’onore e matrimonio riparatore; un paese fondamentalmente misogino, anche in chi non pensa di esserlo. Allargare lo sguardo alla condizione femminile, che è la condizione di noi tutti, e andare alla ricerca delle molte altre responsabilità sociali è solo il primo, necessario passo.

La seconda urgenza è finirla con l’effetto da serie tv di terza categoria di cui, appunto, talk e contenitori si abbeverano ogni giorno: o quei temi si affrontano in modo utile oppure si fanno più danni che altro. È finito il tempo dello storytelling dei crimini d’odio, in particolare quelli verso le donne, dov’è tutto uno scatto d’ira, una trasformazione improvvisa del partner o, peggio, lo stereotipo dell’amore non corrisposto. La radice è ovviamente più profonda e se non si riesce a trovarla tanto vale limitarsi ai fatti puri e semplici nella loro drammaticità. Quantomeno si produrrà meno dolore. Non è più tempo di “amori criminali” in tv: maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, percosse e abusi sessuali, stalking e poi omicidi più o meno programmati. Ci sono solo i criminali, e basta – come una serie appena diffusa su Netflix, Unbelievable, dimostra con chiarezza, ribaltando il focus dell’attenzione sulle donne.

Poi c’è la legge, ovviamente. Che ci sottopone casi come quello di Fabiana Luzzi, la sedicenne bruciata viva dal fidanzato nel maggio di sei anni fa a Corigliano, a Cosenza: i familiari sono costretti a vedere il suo assassino in permesso premio, a quanto pare già tre goduti in neanche tre anni di carcere a fronte di una condanna a oltre 18, sconvolti tanto da scrivere al presidente Sergio Mattarella. “Ci sentiamo distrutti e abbandonati da uno stato che non ci tutela” – ha scritto il padre Mario Luzzi – “le leggi dello stato continuano a premiare gli assassini e distruggono ulteriormente le vittime”.

Non solo le leggi dello stato, per giunta spesso inapplicate o senza risorse: basti vedere cosa sta accadendo a quella sul “codice rosso” approvata pochi mesi fa, ma anche certe azioni di presunto legalitarismo da parte delle amministrazioni locali che sembrano marciare in direzione ostinatamente contraria, come quella dello sgombero della casa delle donne Lucha y Siesta a Roma, sulla Tuscolana. C’è insomma un sistema che avvalora quelle narrazioni, giornalistiche e no, che fonda gli squilibri della nostra società e alla fine conduce alla speculazione sul corpo delle troppe donne morte per mano degli uomini, spesso loro partner. Bisogna partire da lì, distruggendo finalmente ogni sfumatura da melodramma.

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