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sabato, Giu 13

Come prepararsi al Bloomsday, il giorno dedicato a James Joyce 



Da Wired.it :

In un Bloomsday per la prima volta fatto di pandemie e di rivolte, è opportuno che tutti leggano davvero Joyce: ecco qualche cosa da cui cominciare

(foto: Getty Images)

Il 16 giugno si celebrerà in tutto il mondo una festa particolare e tutto sommato liberatoria: il Bloomsday. È la giornata raccontata nel colosso inavvicinabile della letteratura moderna, l’Ulisse di James Joyce. Perché può essere utile ricordare l’autore e la sua opera oggi? Prima di tutto perché questo suo capolavoro oggi ritorna in libreria per la Nave di Teseo con una nuova traduzione di Mario Biondi (dopo la prima di Giulio De Angelis del 1960, quella del suo allievo Enrico Terrinoni del 2012 e quella di Gianni Celati del 2013). Una traduzione che farà sicuramente discutere – per alcune scelte ardite volte a rendere Joyce meno distante alle nuove generazioni – come è stato per le altre. Tradurre Joyce è, si sa, un’impresa di una vita intera, e un atto quasi politico. 

In ogni caso, lasciando perdere la possibile fedeltà della traduzione al testo, in tempi di profanazione di statue e simboli di un passato ambiguo, sarà interessante riscoprire la dissacrazione di Joyce delle sue radici ebree e irlandesi (quindi anche cattoliche, lui che fu come Stephen educato dai gesuiti) tanto che la sua universalità lo porta ad avere alla spalle e a riscrivere anche quella greca, non solo nell’Ulisse.

In quel giorno oggi celebrato, Leopold Boom, il pubblicitario traditore e tradito, lo scurrile camminatore edoardiano un po’ feticista, compie la sua libera traversata nelle strade di Dublino, tra appuntamenti falliti, appostamenti eccitati, digressioni poco politically correct e uno sguardo attento e famelico, a tratti persino bulimico, al cibo. Una passeggiata, che a noi lettori post-Covid pare molto liberatoria e che porterà Bloom, novello Ulisse e ebreo errante disorientato – sebbene Joyce usi in modo alterno l’Odissea – a trovare il proprio Telemaco, il giovane scrittore Stephen Dedalus, altro celeberrimo protagonista del libro, accompagnandolo ad un bordello dublinese, dopo alcuni incontri mancati tra di loro. 

E nel richiamo all’Odissea, troviamo in Joyce anche la sua Penelope, che qui al contrario è una moglie fedifraga e cantante d’opera, Molly Bloom, e che a differenza del marito se ne rimane a casa. Molly ci regalerà, sul finire del romanzo, un monologo interiore tra i più importanti della storia letteraria, dove pare rivedere l’intera epopea dei due maschi Leopold e Stephen, padre e figlio temporanei, riscrivendoli in una luce diversa, mentre gira attorno alle proprie bugie – ha da poco infatti incontrato il suo amante Hugh Blazes Boylan, spera di non esser rimasta incinta. 

Attorno ai tre poli di questa famiglia imperfetta e innaturale, si muovono una selva di simboli, personaggi minori, richiami cristologici stravolti, pubblicità, toponomastica dublinese dettagliatissima, dove Joyce mescola e parodizza interi pezzi della tradizione cristiana e antica, assieme ai fatti d’Irlanda a lui coevi legati al nazionalismo irlandese. 

 

Prima dell’Ulisse – che il suo autore definì un “maledettissimo romanzaccio – Joyce si era infatti divertito a demolire la vita studentesca e il romanzo di formazione stesso, con Il Dedalus o ritratto dell’artista da giovane: è un ardito libro semi-autobiografico che racconta della formazione di Stephen Dedalus. Interrogandoci oggi sul futuro della scuola italiana, potrebbe essere utile rileggere questo romanzo che varia quasi facendo maturare il proprio autore all’interno, di sezione in sezione, nell’inseguire l’infanzia e poi l’accesso alla maturità (nella fuga dall’Irlanda) del suo “eroe” (come è ironicamente definito: Stephen Hero). La nazionalità (e il nazionalismo), la religione, la famiglia e il rapporto materno: Io mi sforzerò di volare via da queste reti”, dirà Stephen. Ci riuscirà?

Il Dedalus è un romanzo di formazione personale ma anche di comunione: si racconta degli anni di collegio gesuita del suo protagonista, severi e pieni di punizioni da parte degli educatori preti, nell’ansia di diventare uno scrittore e di affrancarsi sia dalla cultura cattolica sia dalla famiglia – rappresentata in particolare dalla rigida zia Dante – in un rimorso che lo insegue fino ad auto-imporgli pesanti punizioni corporali per aver “peccato” con una prostituta, dopo aver girovagato anche lui, come farà con Leopold Bloom, per la sua Dublino mentre “lo turbava trovare nel mondo esterno una traccia di ciò che fino ad allora aveva reputato un’animalesca malattia individuale.”

Ed è come detto un romanzo di comunione perché tanti sono gli amici con i quali si confronta prima in collegio poi all’università. “La storia… è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi”, dirà Stephen ritornando come protagonista nell’Ulisse. Non sarà anche così per noi in questi mesi? 

Ma Joyce arrivava a questi due libri e alle loro tematiche, attraverso la palestra dei Dubliners o Gente di Dublino che dir si voglia (tradurre). Anche lì, l’esigenza, attraverso un libro di racconti, di raccontare la vita cittadina di Dublino per incontrare personaggi-archetipi, e la vita cittadina è descritta secondo varie fasi della vita di un individuo, individui spesso soggetti a culture, famiglie e religioni opprimenti. Quindici racconti che rappresentato le difficoltà della vita delle strade dublinesi, i rimorsi, gli stalli e le volontà di sfuggirvi, come scatti da fermi, che lui stesso definì come forma per eccellenza della città stessa, nel tentativo programmatico del libro di “smascherare l’anima di quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città”. Tra i più celebri, Eveline, dove il flusso di coscienza raggiunge uno dei suoi vertici sul personaggio femminile di una giovane donna assorta e paralizzata alla finestra, mentre riavvolge il proprio passato e rinuncia a partire. Oppure quello spesso scorporato de I morti, epilogo ideale del libro, in cui una Dublino nevischiosa, i due coniugi Gabriel e Gretta Conroy si rivelano e si mancano in una camera d’albergo, confessandosi passioni presenti e fantasmi del passato. 

Lasciando da parte certe turbolenze e problematiche, i dati di vendita dei libri crollati nel periodo di lockdown stanno faticosamente riprendendo a salire, e si percepisce, con la riapertura delle biblioteche e delle librerie, di un bisogno nuovo di leggere, che potrebbe dare ossigeno alleditoria italiana in crisi. Ma chi sarà così abile quest’estate da affrontare la sfida impervia del Finnegans Wake, mirabilmente tradotto recentemente da Fabio Pedone e Enrico Terrinoni? Libro mito dell’illeggibilità colta, inventivo e polisemico al massimo di lingue e linguaggi, l’ultimo romanzo di Joyce è un ideale sequel de L’Ulisse, il suo subconscio notturno. 

La veglia dei Finnegans (o il sogno?) del titolo – che si riferisce alla veglia funebre del carpentiere Finnegan che troviamo morto all’inizio del libro – parte da Chapelizod, un sobborgo di Dublino, dove vivono i signori Porter e i tre figli. Andati a dormire, il loro mondo cambia radicalmente, così come i loro nomi: l’uomo diviene Mr. Humphrey Chimpden Earwicker abbreviato Hce, lei Anna Livia Plurabelle, così come i figli si trasfigurano…

Dublino e il fiume Liffey sono gli altri protagonisti di questo fiume polisemico che scorre nel tentativo incredibile di riassumere – c’è alle spalle la filosofia di Giambattista Vico – tutta la storia dell’umanità, nell’evoluzione di una famiglia che tenta di essere archetipica proprio mentre mostra le proprie debolezze. Qui Joyce fa quadrato con tutto quanto scritto in precedenza, sconvolgendo il suo stesso universo: semi-autobiografia che diventa magnificazione del creato e del creabile. 

Il discorso su Joyce potrebbe non finire più, come il suo fiume finnegansiano, ma chi volesse proseguire, in tono più soft, con questo mondo di Joyce che pare autosufficiente, potrebbe infine andarsi a pescare anche gli altri suoi libri: il dramma (l’unico scritto) Exiles (Esuli o Esili?, anche qui, problemi di traduzione) oppure la raccolta di poesie Musica da camera recentemente riproposta da Passigli, e infine due libri della collana di Perrone editore dedicata alle città letterarie: A Dublino con James Joyce e A Trieste. Passeggiate letterarie. Perché ricordiamolo: se Joyce fu grande lo fu perché frequentò, visse (e scrisse ne) la vivacissima e unica Trieste d’inizio Novecento. E quindi questo Bloomsday è anche un po’ una nostra ricorrenza.

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[Fonte Wired.it]