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giovedì, Mag 20

Come Shrek ha rovinato l’animazione degli ultimi vent’anni



Da Wired.it :

Nel 2001 usciva il film della Dreamworks che trovava un successo immenso facendo appello al minimo comun denominatore e affascinando il pubblico col minor sforzo creativo possibile

Dopo aver fallito nel competere contro la Disney sul suo terreno, con film come Il principe d’Egitto, Z, la formica o Spirit, la Dreamworks si calava definitivamente le braghe e nel farlo trovava un successo da cui gli è stato impossibile uscire. Il successo di Shrek, vent’anni fa, segnava un punto di non ritorno da cui la Dreamworks in primis e moltissimi altri dietro a lei avrebbero costruito un altro tipo di animazione, alternativa alla Disney, fondata sul fare appello al minimo comun denominatore in ogni situazione. La fonte di tutto il peggio che abbiamo visto in questi anni.

Del resto tutto nasceva come un affronto alla Disney, una maniera per fargliela pagare. Jeffrey Katzenberg l’uomo che negli anni ‘90 aveva riportato la Disney in cima al box office con La Sirenetta, Il re Leone, Aladdin ecc. ecc. aveva lasciato lo studio in polemica con il suo presidente ed era andato a fondare la Dreamworks con Spielberg, una casa d’animazione (e non solo) rivale con l’obiettivo ambiziosissimo di far concorrenza a Disney. Ma dopo i primi film impostati in modo molto classico e il fallimento di quelle idee, toccò a Shrek, cioè il tentativo di andare nella direzione opposta e così arrivare ad un altro pubblico, mentre nel frattempo si faceva un gigantesco dito medio alla Disney.

Shrek si apre con il protagonista che legge una fiaba e ci si pulisce il sedere, tira lo sciacquone e si presenta. Lui con la materia con la quale la Disney ha trionfato per decenni sa cosa farci. E il pubblico già ride. Non è di certo una novità un racconto nel mondo delle favole che le prende in giro da dentro, con personaggi che sanno di essere nelle favole, esistono almeno da quando esistono le fiabe e Disney stessa ne ha fatte mille. Shrek però aveva compiuto uno scatto in più per piacere ad un pubblico più adulto o, come diceva lo stesso Katzenberg: “Se Disney fa appello al bambino in ogni adulto, noi faremo appello all’adulto in ogni bambino”. Se non bastasse c’è anche la scena in cui Shrek e Ciuchino entrano nel castello del cattivo del film e si ritrovano praticamente in un parco a tema Disney, un parco di un signore malvagio che lo usa per aumentare il consenso verso se stesso. Materia sovversiva da controcultura in un film che ambiva all’opposto, a diventare cultura egemone (e ce l’ha fatta).

Quando Shrek è uscito è stato un successo immediato. Cinquecento milioni in tutto il mondo a partire da un budget di 60, presentato al Festival di Cannes (in concorso!!) e vincitore dell’Oscar al miglior film d’animazione contro Monsters & Co. della Pixar. Anche le canzoni come I’m A Believer o All Star degli Smash Mouth ritornarono nella classifica dei singoli più venduti. Rimescolava tutto quel che Tarantino e il postmoderno avevano reso famoso, abbassandolo ad altezza bambino, utilizzava le citazioni nei modi più semplici e diretti, applicava un umorismo pieno di ammiccamenti adulti (ma non troppo da cacciare davvero il pubblico di bambini) e infine su tutto calava un manto di inclusività, i brutti che sono migliori dei belli, la banda di outsider contro i potenti. Princìpi che, nonostante i rutti e gli attacchi frontali, riportavano il pubblico all’ovile e tutto alla normalità.

Shrek era un film per famiglie come altri, nulla di rivoluzionario, nulla di corrosivo come fingeva di essere, ma solo qualcosa che illudeva di essere diverso. E nel frattempo era terribile, animato malissimo privo di qualsiasi idea estetica o dei principi base di un character design creativo. Ogni personaggio era pensato male prima ancora di essere disegnato (al computer) male. E non stupisce nemmeno che l’ispirazione della storia venga da un libricino per bambini, perché segue esattamente quei principi semplici di parodia delle favole, aggiungendo due protagonisti che ribaltano Sancho Panza e Don Chisciotte, consapevoli di essere in un racconto invece che essere illusi di essere eroi da romanzo.

La trama stessa di Shrek è un calderone in cui finisce di tutto, un po’ a caso, il più convenzionale dei ribaltamenti con una principessa che non vuole essere tale (già lo faceva Disney negli anni ‘90) e in realtà è un orco, il protagonista mostruoso che è migliore di tutti i bellocci omologati (già lo faceva Tim Burton negli anni ‘90), univa i combattimenti di Matrix alla colonna sonora degli Smash Mouth, riferimenti sessuali ambigui, una scena di tortura all’omino di zenzero e poi battute anche divertenti e riuscite, unite tra loro da niente. Un calderone in cui mettere tutto, frutto di una lavorazione terribile. È noto che alla Dreamworks lavorare a Shrek fosse considerata la Siberia. In pochi credevano nel progetto che veniva continuamente cambiato e riscritto.

Anarchico realmente questo cartone non lo è mai stato. Del resto niente di anarchico può ammassare tutto questo consenso, successo e poi 3 sequel, uno spin-off, 8 corti per la tv, una serie, 12 videogiochi e (alla fine ci sono arrivati) parchi a tema. Del resto Katzenberg non voleva distruggere quello che la Disney rappresentava ma semmai prendere il suo posto sul trono. Non ci sarebbe riuscito, la fiammata di Shrek e il successo della sua saga non sono bastati e la Disney negli anni successivi, anche grazie all’inclusione della Pixar, sarebbe tornata al centro dell’immaginario animato. Tuttavia Shrek ha creato un mondo parallelo di cartoni animati che abbassano tutto al minimo comun denominatore, fatto di canzoni pop, balletti, maschere saccenti dai caratteri abbozzati, una scrittura facilona e un vagonata di umorismo un tanto al chilo che non smette mai di funzionare.

L’era glaciale, poi i seguaci più spietati come la Illumination di Cattivissimo me, i Minions e Pets sono solo alcuni esempi della direzione che Shrek e soprattutto il suo successo hanno indicato all’industria, il fatto cioè che esistesse un pubblico potenziale grandissimo per prodotti animati che non dovevano per forza avere la scrittura della Pixar o la cura nei personaggi della Disney, ma potevano essere molto più sempliciotti, potevano essere solo dei furbi outsider (in realtà pienamente integrati) che ballano sui titoli di coda o ruttano in scena. Un ribellismo che in realtà è il suo opposto, è trasgressione sotto l’occhio bonario dei genitori, per un pubblico (anche adulto) che si accontenta di pochissimo. Il principio base del cinepanettone (siamo pessimi come voi che ci guardate) applicato ai cartoni.

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[Fonte Wired.it]