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sabato, Ott 05

Come si racconta la fine di una vita?


“Il dolore, quando arriva, non è affatto come ce lo aspettiamo”: da Joan Didion fino a Emmanuel Carrère, come i grandi – e meno grandi – della letteratura hanno fatto i conti con la morte e la perdita

La famiglia reale inglese ai funerali di Diana Spencer (foto: robert wallis/Corbis via Getty Images)

Si sta discutendo molto discusso sui giornali e nell’opinione pubblica di leggi sul fine vita, a seguito della recente depenalizzazione del suicidio assistito della Corte costituzionale. Senza voler qui prendere posizioni sul tema spinoso, ovviamente anche la letteratura, nel suo massimo grado, è spesso chiamata a dare forma e espressione agli ultimi attimi della vita dei suoi personaggi, a trovarsi di fronte a quello che oggi si chiama aging (e un tempo più elegantemente senescenza) o al cospetto della sofferenza e della sparizione di persone care: in definitiva al senso stesso della morte come un passaggio inevitabile. Una materia dura e scottante che intreccia scrittori e medici, filosofi con terapeuti, da tempo. Non sorprende pertanto scoprire, al di là dei molti saggi – come l’appena uscito libro di Flores D’Arcais, Questione di vita o di morte (Einaudi) – che esista persino in Italia un master dell’università di Padova specializzato nelle discipline di Endlife e Death Studies, dove si studia da diverse angolazioni una materia all’apparenza imprendibile, con il supporto congiunto di oncologi, psicologici, tanato-terapeuti e antropologhi.   

Se seguiamo la short list appena rivelata del prestigioso premio Man Booker Prize americano, che premia ogni anno il meglio del meglio tra gli autori in lingua inglese, troviamo un romanzo che pare proprio esorcizzare la malattia e la morte (ma non solo) in modo vertiginoso ed enciclopedico (ricordate come Sheherazade sopravviveva alla sentenza di morte dell’Imperatore raccontando)? Sperando di vederlo presto in si tratta dell’eccentrico e voluminoso romanzo – composto pressoché soltanto da una lunghissima frase! – dell’autrice americana Lucy Ellman: Ducks, Newburyport. Il flusso di coscienza – che ricorda ovviamente Joyce e compagnia modernista – sembra quasi usato per scongiurare la prossimità della morte della voce narrante, una donna e madre di quattro figli che ha preso congedo dall’attività docente a seguito di un trattamento oncologico e che si ritrova a casa a sbrigare faccende domestiche. Divagante, pieno di connessioni e giochi di parole, il titolo del romanzo, Anatre a Newburyport si riferisce tra l’altro ad un tragico aneddoto relativo alla madre della stessa protagonista, salvata dal morire affogata dalla sorella maggiore, mentre era andata a inseguire anatre in un laghetto. Il ricordo affabulato pare qui una sorta di amuleto che protegge lei e i suoi cari. 

Per chi volesse continuare, a cavallo tra new journalism e narrativa, sulla tematica, un consiglio assoluto sarebbe quello di ripescare molte delle opere di Joan Didion, scrittrice e icona americana alla quale è stato persino dedicato un documentario su Netflix (Joan Didion: The Center Will Not Hold). Non solo la Didion ha descritto l’America sbandata e fragorosa del dopoguerra, le culture alternative e lisergiche, i cineasti e le rockstar sbandate, così come spesso i non-luoghi della società di massa, ma ha usato sé stessa come scandaglio di dolore e riflessioni sul rapporto tra morte, dolore e scrittura. Ovviamente si dovrebbe partire dal fondamentale L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore), che racconta dell’anno funesto in cui l’autrice perde prima il marito e poi si prende cura della figlia in coma: un anno che le insegna a accettare la vita, a cambiare le proprie coordinate di riferimento, a ragionare su infelicità e felicità, e in definitiva a distanziare e un tempo accettare il dolore (anche perché, scrive, “il dolore, quando arriva, non è affatto come ce lo aspettiamo”).

Questo “anno del pensiero magico” di grande rivoluzione personale è raccontato non solo attraverso l’autobiografia del lutto, ma utilizzando inserti da studi psicologici e medici che le servono quasi da auto-analisi. Alla morte della figlia, occorso ben poco dopo la morte del marito, la Didion dedicherà invece un altro libro reportage, Blue Nights (sempre per il Saggiatore). Il titolo richiama quella particolare tonalità del crepuscolo che in certi periodi dell’anno prima del solstizio d’estate di un blu intenso che precede l’oscurità: “Questo libro”, scrive in una nota prefatoria, “si intitola Notti azzurre perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio. Noi ci raccontiamo delle storie per vivere”; così si apre d’altronde la sua precedente raccolta di reportage e narrazioni a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, White Album.

Di una vita spesso disagiata, caotica e anarchica che per quanto oscura e prossima alla morte offre un’accecante visione, ci parla anche l’ultima opera, uscita postuma, La generosità della sirena (Einaudi), del grande raccontista Denis Johnson, morto per un cancro al fegato nel 2016. Johnson è l’autore del celeberrimo Jesus’ Son, e ahinoi per l’ultima volta ci offre un libro di racconti eccelso, completato dall’autore poco prima di andarsene. Si percepisce che il libro sia stato composto sotto il presagio della fine, se non esplicitamente nel racconto della visita di una ex moglie al letto di morte di un ex marito malato terminale (Il Trionfo sulla morte) oppure nel racconto che dà il titolo alla raccolta, diviso in brevi vicende apparentemente slegate, dove un uomo riceve la telefonata di una ex moglie che gli annuncia di avere poco da vivere, e lui non sa se si tratti della prima o della seconda consorte, Ginny or Jenny. In ogni caso: “Prima di concludere il suo transito terreno, parole sue, Ginny voleva liberarsi di ogni rancore nei confronti di certe persone, certi uomini, soprattutto me”. Ma in fondo ogni personaggio johnsoniano viene sfiorato più volte dall’estasi e dall’abiezione tipici della sua narrativa, invecchiando o degenerando, immergendosi nei bassifondi della realtà come nel lancinante rimpianto di aver fallito: prigioni, centri di recupero per tossicodipendenti, ma anche salette d’aspetto di pronti soccorso. Luoghi di cura, ma anche di morte… 

Solo raccontando si sopravvive al peso eterno del dolore e del lutto. Vale la pena menzionare in questa direzione un libro, recentemente ritradotto in che affrontare a cuore aperto la morte, sebbene la morte altrui: è forse il libro più caldo di Emmanuel Carrère, romanziere francese che ci ha abituati a volte ad un certo narcisismo spudorato. Sto parlando di Vite che non sono la mia, riproposto da Adelphi nel 2018. L’autore racconta nel romanzo di una duplice tragedia: la morte improvvisa della bambina di una coppia di turisti che si trovavano con Carrère e la sua compagna nello Sri Lanka durante il fatidico tsunami, ma anche, ritorni a Parigi, la morte per cancro della sorella della compagnia medesima, accorsa pochi mesi dopo il catastrofico evento naturale. Il metodo per affrontare l’indicibile dolore degli altri è quello del raffinato gioco dei punti di vista, sebbene sia un gioco empatico che non teme il patetico. In questo, la negazione presente nel titolo è indicativa del tentativo di avere un accesso non teatrale al dolore altrui, pur immedesimandosi. Volendo rimanere in aria francese, un libro di morte e lutto che non potrà non sorprendevi l’ha scritto un famoso semiologo, o meglio il padre della semiotica: Roland Barthes. Dove lei non è (Einaudi) è il diario frammentario di due anni scritto da Barthes per la madre morta, una raffinata elaborazione di quella che è definita una certa “immobilità” del lutto. 

Siamo partiti dal dibattito italiano, e lì ritorniamo: i casi di Welby, Englaro e il recente di dj Fabo hanno risvegliato l’attenzione e le coscienze sul fine vita. A partire da questo risveglio e dal punto di vista di una fede cattolica non integralista si pone lo scrittore e magistrato Eduardo Savarese scrivendo un pamphlet accorato: Il tempo di morire (Wojtek edizioni). Un libro che ovviamente ragiona su di una delle questioni in gioco – quella della libertà personale di scelta e del senso di una morte degna – fatto di incontri proprio con alcuni dei protagonisti di cui sopra, ma anche segnato dalla morte prematura del padre, quando l’autore aveva solo 4 anni. C’è da segnalare inoltre che il fine vita è stato battuto anche sulle frontiere del fumetto. Ecco così, appena uscito, Exit (Becco Giallo editore) di Gloria Bardi e Luca Albanese, che in modo serio ma anche lieve oltre a fare il racconto del percorso che ci ha portati, dalla nascita della terapia intensiva, fino al dibattito odierno, fa parlare i Testimoni italiani che sopra abbiamo menzionato. 

Da un punto di vista estremo e grottesco, potremmo rubricare come un grande affronto alla morte anche il romanzo visionario Necropolis di Giordano Tedoldi (Chiarelettere, collana Altrove), dove il protagonista, il maresciallo Yarden, dovrà scegliere il luogo della propria sepoltura attraverso un allucinato viaggio dantesco: passerà dalla Necropoli Ovest (il cui motto è “vivi per la morte”, ed è una decadente e infernale catacomba piena di personaggi bizzarri) alla Necropoli Est (che invece ha come motto “muori per la vita degli altri”, ed è tutta scintillante di tecnologia asettica). Tedoldi costruisce un romanzo che fa parte oramai del canone italiano weird e distopico ma in mondo sghembo, affrontando con profondità spesso caotica e frullata la meditazione sulla vita e il suo contrario da un punto di vista esoterico o da filosofia orientale. Ma sembra anche riferirsi al recente dibattito di cui abbiamo parlato, rifiutando l’alternativa: “Non scegliere mai nulla. E poi andarsene senza fare chiasso”, dice il maresciallo Yarden. Noi preferiamo lasciare l’alternativa sospesa alla libertà (di coscienza) del lettore, sperando che presto si pronunci anche la politica. Qualcosa dobbiamo pur poter scegliere.

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